App. Palermo 9 febbraio 2017 traccia lo spettro funzionale della compensazione «impropria» o «atecnica» muovendo dall’assunto per cui la sua operatività non può sublimare in un meccanismo estintivo delle reciproche poste creditorie scollato dalle coordinate codicistiche.
La ricostruzione operata dalla corte di merito attecchisce nell’alveo di una controversia lavoristica – condizionata nel suo esito dagli effetti di un giudicato penale di condanna – in cui alla domanda del prestatore di lavoro volta ad ottenere la corrensponsione del trattamento di fine rapporto si contrappone, alla stregua di speculare pretesa creditoria, quella datoriale imperniata sull’indebita percezione di assegni familiari da parte del dipendente.
I giudici di merito, agganciando compiutamente la traiettoria esegetica segnata dalla giurisprudenza di legittimità (icasticamente compendiata in Cass. Civ., Sez. Lav., 8 dicembre 2008, n. 28855), ribadiscono del tutto condivisibilmente che l’operatività della compensazione postula l’autonomia dei rapporti da cui scaturiscono le reciproche pretese creditorie. Laddove, infatti, l’elisione delle speculari posizioni debitorie traesse origine dal medesimo rapporto obbligatorio, affiorerebbero i lineamenti strutturali della compensazione impropria o atecnica, la quale comporterebbe né più né meno che un accertamento del reciproco dare-avere (GRISI, in Manuale del diritto privato, a cura di Mazzamuto, Torino, 2016, 479).
Come si è già avuto modo di puntualizzare intervenendo a proposito della questione della compensabilità del credito sub iudice (ALECCI, La questione della compensabilità del credito sub iudice al vaglio delle Sezioni Unite. Il “giusto processo” oltre gli steccati codicistici? , in Dir. Civ. Cont., 10 gennaio 2016), la compensazione come modo di estinzione del rapporto obbligatorio diverso dall’adempimento si rivela qualità intrinseca del credito servente, per un verso, all’istanza di fluidità del paradigma circolatorio (come puntualmente rilevato da TRINCHERI, Note alle Pandette di Glück, Milano, 1896, XVI, tit. II, § 928) e, per altro verso, idonea a realizzare la funzione di garanzia che inevitabilmente si realizza a favore del soggetto che la oppone (profilo marcatamente illustrato da GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2011, 592). Il meccanismo compensativo orbita, dunque, all’interno di un sistema dialettico costituito da due poli, l’uno espressivo di un’esigenza squisitamente super-individuale e l’altro recante i segni di un autentico potere di autotutela.
Da quanto precisato discende la sostanziale inconsistenza delle ricostruzioni teoriche che annodano la fenomenologia insita nell’elisione delle reciproche pretese creditorie a suggestioni dal sapore equitativo (di cui RAGUSA MAGGIORE, Compensazione (Voce), in Enc. dir., Milano, 1961, VIII, 17 evidenzia la viscosa pregnanza ermeneutica in letteratura), in quanto la compensazione realizza essenzialmente uno “scambio di due liberazioni” consequenziale alla neutralizzazione delle reciproche tensioni all’adempimento (il che consente di ascriverla senza indugio, sulle orme dell’insegnamento di MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1959, III, 498, al novero dei modi satisfattori di estinzione del vincolo obbligatorio, nella misura in cui, se è vero che le parti nulla percepiscono, è altrettanto irrefutabile che nulla corrispondono di ciò che dovrebbero).
Rimarcando che il perfezionamento dell’ingranaggio compensativo presuppone la ricorrenza dei requisiti scolpiti all’art. 1243 e che, pertanto, un credito contestato in un separato giudizio non può rivelarsi suscettibile né di compensazione legale né di compensazione giudiziale (fermo restando che – come sostenuto da PERLINGIERI, Dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja- Branca, 1975, 496 – soltanto una contestazione seria vale a privare una pretesa giuridica della sua certezza), la Corte di Appello di Palermo avverte l’esigenza di precisare che tali argini codicistici non possono essere profanati neanche attingendo all’operatività della compensazione impropria, la quale si trasformerebbe altrimenti in una sorta di compensazione di fatto sganciata da ogni steccato normativo.
Un simile approccio giurisprudenziale, espressivo di un rigoroso governo dell’istituto, merita indubbiamente apprezzamento nella misura in cui valorizza il delicato contemperamento tra l’interesse all’elisione delle poste creditorie e quello del diritto di difesa (particolarmente evidente nell’ipotesi di compensazione giudiziale), il che tradisce la piena metabolizzazione di quella linea di pensiero (evocata da INZITARI, Compensazione, in Casi e questioni di diritto privato, a cura di Bessone, Milano, 1993, V, 329) per la quale la posizione del soggetto legittimato ad opporre la compensazione è addirittura più vantaggiosa di quella offerta da qualunque altro diritto reale di garanzia, se non altro perché l’estinzione dei reciproci rapporti obbligatori avviene al riparo da ogni forma di concorso di altri creditori.
Tuttavia, l’approdo esegetico della corte territoriale si mostra lievemente più timido in prospettiva dogmatica nella parte in cui, allineandosi alla giurisprudenza di legittimità, non si spinge a riconoscere che la compensazione impropria o atecnica non interagisce né potrebbe interagire in alcun modo con le modalità operative proprie dell’istituto codicistico.
Lo stesso sintagma “compensazione atecnica o impropria” restituisce, invero, un’aberrazione nominalistica che non rende giustizia dell’effettiva caratura funzionale del fenomeno giuridico che esprime (cfr., a tal riguardo, le interessanti considerazioni di FOLLIERI, L’<ossimoro giuridico> della compensazione cd. impropria, in Obbligazioni e contratti, 2008, 623). Come opportunamente illustrato (cfr. NIVARRA, Lineamenti di diritto delle obbligazioni, Torino, 2011, 55 e, in un’interessante prospettiva di stampo comparatistico, GABASSI, La cd. compensazione impropria ovvero la compensazione cd. impropria, 2013, Università degli Studi di Ferrara – tesi dottorale, 176), la compensazione atecnica si innesta – a differenza del meccanismo compensativo proprio, che affonda la sua essenza nel presupposto dell’autonomia dei rapporti contrapposti – nel solco del sinallagma contrattuale. Il che non equivale ad affermare che dalla disciplina dei rimedi sinallagmatici possa desumersi un generale principio di liquidazione delle reciproche pretese creditorie, bensì soltanto che nulla impedisce alle parti di un contratto a prestazioni corrispettive di convenire, all’interno di un assetto negoziale già efficace, l’estinzione in tutto o in parte delle reciproche obbligazioni (realtà fenomenica – giova precisarlo – non esattamente sovrapponibile a quella della compensazione volontaria, in cui, invece, i contraenti slegano ab externo l’effetto estintivo dai requisiti di omogeneità, liquidità ed esigibilità).
In definitiva, le brevi considerazioni svolte inducono a rintracciare nella compensazione impropria o atecnica i lineamenti funzionali di un mero accertamento contabile, che non necessariamente presuppone – a dispetto di quanto osservato dalla più recente giurisprudenza – l’esigibilità o l’omogeneità dei crediti (come, del resto, già riconosciuto dalle risalenti Cass. Civ., 14 febbraio 1983, n. 1145 e Cass. Civ., 5 maggio 1982, n. 2801), essendo sufficiente il riscontro della sola liquidità degli stessi.
Il rischio che tale peculiare meccanismo estintivo, del tutto avulso da quello disciplinato dagli artt. 1241 e ss., possa trasfigurarsi in una compensazione di fatto sganciata dai limiti codicistici si rivela allora meno concreto di quel che di primo acchito possa apparire, in quanto, al netto dei sintagmi nominali invalsi nella prassi, la compensazione impropria trova la sua ragion d’essere nel sinallagma contrattuale, il che reca con sé l’inammissibilità di una rilevabilità officiosa della stessa da parte del giudice (ritenuta plausibile, invece, da Cass. Civ., 15 giugno 2016, n. 12302, ma condivisibilmente disattesa dalla Corte di Appello di Palermo, la quale – al netto delle petizioni di principio declinate sulla scia della giurisprudenza di legittimità – si è comunque premurata di accertare l’intento processuale dell’appellato volto ad ottenere l’accertamento del controcredito vantato nei confronti dell’appellante nonché la relativa differenza contabile). L’intervento dell’organo giudicante, infatti, non può certo supplire alle mancanze processuali delle parti, ma deve tendere ad appurare che quantomeno dal contegno difensivo delle stesse emerga la volontà di opporre il controcredito.
E del resto, se si muove dall’incontestabile presupposto per cui il giudice non potrebbe mai rigettare la domanda dell’attore in mancanza di un’eccezione di inadempimento da parte del convenuto (PERSICO, L’eccezione di inadempimento, Milano, 1955, 187), è agevole quanto inevitabile ammettere che non si possa in alcun modo approdare all’estinzione officiosa di reciproche pretese creditorie, anche se derivanti dal medesimo rapporto obbligatorio.