La recente pronuncia della giurisprudenza di legittimità – Cass. Civ., 17 gennaio 2017, n. 923 – concerne il discusso tema della configurabilità del diritto alla provvigione per il mediatore immobiliare nell’ipotesi di conclusione di un ipotetico “contratto preliminare di preliminare”. Figura che, a seguito della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione – n. 4628 del 6 marzo 2015 (in Riv. not., 2015, 192 ss.) – mostratasi più flessibile nell’attribuire risalto all’autonomia contrattuale nell’ambito della formazione progressiva del contratto, sembrerebbe aver assunto – seppur con una certa “timidezza” – un proprio ruolo all’interno del settore immobiliare.
A giudizio dell’adita Corte di Appello di Roma, le parti nel caso in esame avrebbero posto in essere un negozio giuridico che potrebbe già rappresentare quella “conclusione dell’affare” che, ai sensi dell’art. 1755 c.c., implica la maturazione del diritto alla provvigione per il mediatore.
In particolare, l’agenzia immobiliare aveva convenuto in giudizio la promittente venditrice per sentirla condannare al pagamento della provvigione, sulla base dell’incarico che quest’ultima aveva conferito alla predetta agenzia. A seguito del rigetto della domanda attrice ad opera del Tribunale di Roma, la Corte di Appello riformò la sentenza di primo grado, in forza dell’assunto per cui, mediante accettazione della proposta di acquisto da parte dell’alienante, era stato concluso un contratto preliminare di preliminare e, pertanto, in presenza di un vincolo di natura obbligatoria intercorso tra le parti, sarebbe già sussistente il diritto alla provvigione per l’agente.
La parte venditrice – originariamente convenuta e risultante soccombente in appello – ha proposto ricorso in Cassazione. In merito alla tematica oggetto di analisi, la ricorrente sosteneva che nel caso di specie non si fosse al cospetto di un vero contratto preliminare, ma di semplice minuta o puntuazione, di per sé non idonea a vincolare le parti su un determinato assetto di interessi. Inoltre, a giudizio della ricorrente, anche ove, tramite utilizzo dei criteri ermeneutici, si pervenisse alla conclusione per cui tra le parti sia stato posto in essere un “preliminare di preliminare”, tale accordo sarebbe nullo per difetto di causa, non producendo alcun effetto vincolante per le parti e, di conseguenza, non consentendo al mediatore di incamerare la provvigione (in particolare, come precedente per eccellenza sull’invalidità del preliminare di preliminare, v. Cass. Civ., 2 aprile 2009, n. 8038, in Contratti, 2009, 986 ss.).
Secondo i giudici della Corte Suprema, i quali richiamano il principio di diritto affermato nella sentenza delle S.U. (secondo cui “deve ritenersi produttivo di effetti l’accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare”), il giudice di merito avrebbe proprio valorizzato ed evidenziato i passaggi che portano alla formazione progressiva del contratto, basati su una differenziazione dei contenuti negoziali e, con ciò, conferendo validità all’accordo denominato preliminare di preliminare.
Di conseguenza, i magistrati sono anche concordi nel ravvisare l’insorgenza del diritto alla provvigione derivante dalla stipulazione di un siffatto accordo proprio in quanto idoneo a rappresentare quell’”affare” che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, deve essere inteso come qualsiasi vincolo di natura economica in grado di generare un rapporto obbligatorio, che dia diritto alle parti di agire in giudizio per ottenere un adempimento/risoluzione dello stesso o, in subordine, per il risarcimento del danno (v., inter alia, Cass. Civ., 19 ottobre 2007, n. 22000, in Giust. civ. mass., 2007, 10).
Ad ulteriore conferma di quanto sostenuto, la Corte Suprema richiama un’altra pronuncia della stessa giurisprudenza di legittimità – n. 24397 del 30 novembre 2015 – che aveva già avuto modo di esprimersi in tema, sostenendo come l’accettazione della proposta di acquisto possa già essere in grado di far sorgere il diritto al compenso provvigionale.
La figura del c.d. preliminare “aperto” (o preliminare di preliminare) è venuta ad instaurarsi con una certa autorevolezza proprio nell’ambito della contrattazione immobiliare professionalmente gestita. Tale strumento si caratterizza per l’attività svolta dal mediatore, il quale, incaricato di vendere un determinato immobile, lo sottopone all’attenzione di potenziali acquirenti e, una volta pervenuta una manifestazione di volontà in tal senso, procede col far firmare all’interessato una proposta irrevocabile d’acquisto, accompagnata tendenzialmente da una dazione in danaro per confermare la volontà della stessa. Detta proposta verrà presentata al proprietario dell’immobile per l’accettazione (determinando la conclusione di un preliminare di preliminare), configurandosi come atto provvisorio in attesa della stipulazione del vero e proprio contratto preliminare di compravendita.
Le Sezioni Unite si sono pronunciate in merito alla delicata diatriba concernente, per l’appunto, la validità ed ammissibilità del contratto preliminare di preliminare, dopo l’animoso dibattito che da tempo contrapponeva giurisprudenza e dottrina. I giudici hanno superato il rigidismo dogmatico del precedente orientamento (v. App. Genova, 21 febbraio 2006, in Obb. e Contratti, 2006, 7, 648; App. Napoli, 1 ottobre 2003, in Giur. mer., 2004, 62-63; Trib. Napoli, 21 febbraio 1985, in Dir. e Giur., 1985, 725-727; Trib. Napoli, 23 novembre 1982, in Giust. civ., 1983, I, 283-285) che, fermo su una sequenza procedimentale standard (preliminare-definitivo), si era mostrato incline a negare validità al suddetto accordo. La Corte Suprema impone al giudice di merito di vagliare la sussistenza di una causa in concreto che sorregga la tripartizione delle figure contrattuali voluta dai contraenti e, alla presenza di interessi concretamente meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c., assecondare l’autonomia contrattuale delle parti attribuendo validità al duplice negozio ad effetti obbligatori.
L’equivoco più grande sarebbe tuttavia quello di pensare che la sentenza delle S.U. abbia finalmente decretato l’ammissibilità del contratto preliminare di preliminare (sul punto, cfr. G. D’AMICO, Sul c.d. preliminare di preliminare, in Riv. dir. civ., 2016, fasc. 1, 40-65; nonché A. PLAIA, Da “inconcludente superfetazione” a quasi contratto: la parabola ascendente del “preliminare di preliminare”, in Dir. civ. cont., 14 maggio 2015).
Le fattispecie prese in considerazione dalla Corte Suprema si riferiscono infatti ad intese che hanno ad oggetto un “obbligo a contrattare” e non a “contrarre”, come ulteriormente confermato dalla necessità di ravvisare una “differenziazione dei contenuti negoziali”, intesa quale requisito indispensabile per conferire validità alla duplice sequenza preliminare. Orbene, verrebbe pertanto da domandarsi se tale accordo che – a giudizio della Cassazione – potrebbe assumere le vesti di un normale contratto preliminare, di una figura contrattuale atipica oppure rimanere una fattispecie precontrattuale dai contenuti non determinabili a priori (a seconda evidentemente di quale sia la volontà delle parti), sia effettivamente in grado di poter essere assunto quale vincolo di natura economica da cui far dipendere la maturazione della provvigione per il mediatore.
Inoltre, data la frequente presenza del mediatore immobiliare nelle fasi di negoziazione – il quale sottopone alle parti moduli di proposta di acquisto basati su formulari standard che le stesse si limitano semplicemente a sottoscrivere– verrebbe da chiedersi se, tramite una scissione in due vincoli obbligatori prima del contratto ad effetti reali, le parti assecondino proprio le loro concrete volontà – come enfatizzato dalle Cassazione – e raggiungano effettivamente quell’assetto di interessi a cui si erano prefissate di pervenire (sul punto, secondo V. CARBONE, Contratto preliminare di preliminare: un contratto inutile?, in Dir. e Giur., 1995, 464-473, la fattispecie del preliminare di preliminare infatti era stata “creata” esclusivamente per consentire la maturazione della provvigione per il mediatore).
In aggiunta, la confusione terminologica nella distinzione delle varie figure prenegoziali denota la scelta delle S.U. di non voler attribuire autonomia giuridica, nel panorama della formazione progressiva del contratto, alle varie intese che la prassi si trova costantemente ad affrontare, con ciò non aiutando l’interprete nella sua attività di qualificazione dei vari accordi che, di volta in volta, gli si presentano.
Come è noto, “Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento” (art. 1755 comma 1 c.c.). È necessario pertanto che si evinca un nesso di causalità tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare. L’intervento finalizzato a porre in relazione le parti deve dunque rappresentare un antecedente imprescindibile per la realizzazione del negozio secondo il principio della c.d. causalità adeguata, indipendentemente da una presenza costante ed assidua del mediatore in tutte le fasi delle trattative (cfr. tra le più recenti, Cass. Civ., 9 dicembre 2014, n. 25851, in Giust. civ. mass., 2014, 63). Ciò non significa che l’attività dell’agente debba necessariamente raffigurare l’unico apporto causale alla realizzazione del negozio, ma è sufficiente che l’opera di costui rappresenti una condizione senza la quale l’affare non si sarebbe concluso.
La tematica di maggior rilievo giuridico in tale contesto è cercare di assegnare alla locuzione “conclusione dell’affare”, prevista dalla sopramenzionata disposizione codicistica, contorni chiari e precisi. Innanzitutto, si potrebbe pensare che l’utilizzo di un termine di portata così ampia sia proprio nell’intento del legislatore di non riferirsi esclusivamente al contratto, bensì ad ogni operazione di carattere economico che sia in grado di generare obbligazioni per le parti (v. V. DE CASAMASSIMI, Contrattazione immobiliare e “preliminare di preliminare”, in La nuova giur. civ. comm., 2008, 248-257).
A tal proposito – come anticipato – l’orientamento consolidato sia in dottrina che in giurisprudenza è nel senso di ravvisare “la conclusione dell’affare” quando sia stata posta in essere un’operazione economica da cui nasce un vincolo obbligatorio che consenta alle parti di agire per l’esecuzione dello stesso, per la risoluzione oppure per il risarcimento del danno, senza che venga in rilievo l’eventualità che le stesse abbiano, in un secondo momento, deciso di attuare una modifica dei termini o di apporre una condizione sospensiva a tale accordo. Cosicché, l’accettazione di una proposta di acquisto contenente tutti gli elementi essenziali della futura compravendita, che determina la nascita di un contratto preliminare, attribuisce inevitabilmente al mediatore il diritto alla provvigione per l’attività prestata, senza dover necessariamente attendere l’eventuale stipula del contratto definitivo (v., inter alia, Cass. Civ., 9 giugno 2009, n. 13260, in Giust. civ. mass., 2009, 890).
È giusto anche precisare che le parti, in virtù del principio dell’autonomia negoziale, possono derogare alle normative previste per la mediazione e stabilire un compenso a titolo di provvigione indipendentemente dalla conclusione dell’affare, con ciò dando origine ad una mediazione c.d. atipica (cfr. Trib. Ivrea, 11 luglio 2002, in Giur. mer., 2003, 41). Tale contratto non avrebbe più la propria causa nella conclusione dell’affare, ma nella semplice messa in contatto tra le parti e, inoltre – come puntualizzato da attenta dottrina – un accordo del genere potrebbe avere alcune ricadute in termini di meritevolezza degli interessi (art. 1322 c.c.), ove l’utilità economico-giuridico ottenuta dalle parti non sia proporzionale al quantum ricevuto a titolo di provvigione dal mediatore (sul punto, v. TRONCONE, Il diritto alla provvigione del mediatore immobiliare in caso di preliminare del preliminare. Brevi riflessioni a seguito di Cass. Civ., Sez. Un., 6 marzo 2015, n. 4628, in Studium iuris, 2015, fasc. 10, 1139, secondo il quale il tema ha un eminente rilievo pratico, considerando che clausole siffatte sono generalmente inserite all’interno di formulari che le parti si ritrovano inevitabilmente a sottoscrivere). Tali clausole sono state tuttavia considerate valide più volte dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Civ., 13 marzo 2009, n. 6171, in Giust. civ. mass., 2009, 3, 447).
Risulta a questo punto doveroso interrogarsi in merito alla possibilità di poter già configurare il preliminare di preliminare come atto conclusivo dell’affare, da cui derivi il sorgere della provvigione per il mediatore.
La giurisprudenza che non si è mostrata favorevole a ritenere valido un duplice negozio preliminare ha, di conseguenza, negato al mediatore la possibilità di ottenere la provvigione all’accettazione della proposta di acquisto, sancendo la necessità che le parti addivengano alla stipulazione del c.d. preliminare “chiuso” o compromesso.
Altra giurisprudenza ha ravvisato la necessità che l’accordo raggiunto sia suscettibile di esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento – al fine di consentire il sorgere del diritto alla provvigione – in quanto solo ove le parti possano raggiungere – in ogni caso (anche ope iudicis) – l’assetto di interessi che avevano concordato, potrà ritenersi realizzato l’affare (in tema, v. Pretura Bologna, 9 aprile 1996, in Giur. it., 1997, 539 ss.).
In dottrina, a tal riguardo, le posizioni si sono invece dimostrate più permissive.
Alcune correnti di pensiero, partendo dal presupposto che l’affare si formi nel momento in cui viene ad esistenza un vincolo giuridico di natura obbligatoria, sono concordi nel dare rilievo già alla fase di accettazione della proposta di acquisto in quanto in tal momento un vincolo siffatto si verrebbe certamente a creare (sul punto, v. DE CASAMASSIMI, Contrattazione immobiliare e “preliminare di preliminare”, cit.).
In aggiunta, si ritiene non sia nemmeno necessario avere un preliminare che contempli il ricorso alla tutela di cui all’art. 2932 c.c., in base all’assunto per cui la medesima giurisprudenza poc’anzi analizzata ritiene che le due condizioni, quella dell’esecuzione e del risarcimento del danno, possano essere alternative, lasciando presagire che la seconda sia sufficiente (TOSCHI VESPASIANI, Il contratto preliminare di preliminare stipulato nelle agenzie immobiliari, in I Contratti, 2005, 927-943).
Se da un lato la giurisprudenza di legittimità (30 novembre 2015, n. 24397) – dopo la sentenza delle Sezioni Unite – ha già avuto modo di affermare l’idoneità della proposta di acquisto accettata, integrante la fattispecie del preliminare di preliminare, ad essere assunta quale fonte del diritto alla provvigione per il mediatore, dall’altro lato la suddetta posizione sembra non essere pienamente condivisa in dottrina.
In particolare, parrebbe che con il primo preliminare le parti non abbiano la facoltà di ottenere il rimedio dell’esecuzione in forma specifica, dato che la causa in concreto di tale negozio risiede nella conclusione non del contratto definitivo bensì di un altro preliminare, avendo infatti quale propria finalità quella di consentire alle parti di “fermare” l’affare, senza tuttavia vincolarsi verso un obbligo a contrarre.
Le parti stesse non potrebbero nemmeno ottenere un risarcimento del danno da inadempimento del contratto definitivo, visto che tale negozio non si è ancora perfezionato. Tale assunto troverebbe ulteriore conferma nel fatto che – a detta delle S.U. – il quantum risarcibile in caso di inadempimento del preliminare di preliminare dovrebbe limitarsi all’interesse negativo e, pertanto, assumendo di essere ancora nella fase precontrattuale (visto il mancato richiamo all’interesse positivo), risulta difficile sostenere che un vincolo giuridico – come richiesto a livello giurisprudenziale – sia venuto ad esistenza (TRONCONE, ult. cit., 1139).
In linea con il presente orientamento, la giurisprudenza di merito – a differenza di quanto previsto dalla Corte Suprema – ha sancito che “nell’ipotesi della stipula di un c.d. “preliminare di preliminare”, trattandosi di pattuizione da cui non nasce l’obbligo di conclusione del contratto definitivo, non può ritenersi integrata quella “conclusione dell’affare” cui l’art. 1755 c.c. ricollega la nascita del diritto del mediatore alla provvigione, non essendo un siffatto accordo riconducibile alla nozione di “affare”, quale atto in virtù del quale si sia costituito un valido vincolo azionabile per ottenere l’esecuzione del programma negoziale” (v. Trib. Torino, 14 marzo 2016, n. 1411, in Imm. e propr., 2016, 8-9, 533). Il tribunale ha escluso che un precetto non tutelabile tramite un’azione ex art. 2932 c.c. possa integrare la nozione di affare richiamata dall’art. 1755 c.c. e, dunque, ha rigettato la domanda dell’agenzia immobiliare volta ad ottenere la provvigione.
Orbene, la linea di demarcazione tra la minuta o puntuazione, che – come noto – non produce alcun effetto vincolante per le parti, e il pre-preliminare, soprattutto dopo che la pronuncia delle S.U. ha avvicinato tale figura a quella della c.d. “puntuazione vincolante” (accordo definito come irrevocabile sui punti concordati che – a giudizio della Suprema Corte – non potranno essere rimessi in discussione, pena un’eventuale responsabilità da qualificarsi – ed è questo uno dei punti maggiormente critici della sentenza – come “contrattuale”, nonostante evidentemente la puntuazione appartenga notoriamente alla fase precontrattuale), non risulta così netta e precisa. Nel primo caso (minuta o puntuazione) nessun affare vero e proprio si può definire concluso, mentre nel caso di realizzazione di un vero e proprio accordo programmatico, anche nella forma del preliminare di preliminare, il ragionamento dovrebbe cambiare.
L’Agenzia delle Entrate – con la Ris. 63/E del 25 febbraio 2008 – ha precisato che “l’obbligo della registrazione e del pagamento della relativa imposta in capo al mediatore sorge dal momento in cui viene accettata la proposta di acquisto, indipendentemente dalla successiva stipula di un contratto preliminare“, a voler indicare che la conclusione dell’affare deve essere rintracciata già nel primo incontro di volontà, qualora ovviamente la proposta di acquisto contenga tutti gli elementi essenziali della futura compravendita e vi sia un intento delle parti di vincolarsi verso l’assetto di interessi concordato.
L’indirizzo maggioritario in giurisprudenza utilizza la congiunzione disgiuntiva “o” nell’indicare che, al fine di ritenere realizzato l’affare, sia necessario che si formi “un vincolo che dia diritto di agire per l’adempimento dei patti stipulati o, in difetto, per il risarcimento del danno. Ciò – come si è detto – ha dato adito ad attenta dottrina di ritenere che le due condizioni possano essere alternative e non necessariamente cumulative.
Il preliminare di preliminare, così come delineato dalle Sezioni Unite, contempla esclusivamente il risarcimento del danno, non essendo assoggettato al vincolo stringente del rimedio di cui all’art. 2932 c.c., rientrando a pieno nella definizione data dalla giurisprudenza sopra citata.
Pertanto, parrebbe sensato chiedersi se – dato un siffatto accordo – il promissario acquirente, nel caso in cui il promittente venditore si rifiuti di stipulare il preliminare vero e proprio, sia effettivamente tutelato, ove si trovi a dover corrispondere al mediatore la sua parte di provvigione, senza tuttavia ricevere in cambio la proprietà del bene, ma dovendosi “accontentare” del risarcimento del danno?
Con ciò non si vuole sostenere che l’accettazione di una proposta di acquisto, completa in tutti i suoi elementi, non possa già essere considerata come conclusione dell’affare. Quel che si vuole constatare è semplicemente la difficoltà di ritenere soddisfacente, rispetto al fine oggetto di disamina, un accordo che – a giudizio dell’adita Corte Suprema – si avvicina maggiormente ad una puntuazione o comunque ad una fattispecie che non attribuisce alcun diritto di agire per ottenere un’esecuzione di quanto concordato.
Come autorevole dottrina aveva a suo tempo sostenuto, l’effetto di normalizzazione che ha caratterizzato nel corso del tempo la disciplina del contratto preliminare nel nostro ordinamento giuridico, tramite gli interventi del legislatore prima (Si pensi, a titolo esemplificativo, all’introduzione del D.L. 31 dicembre 1996, n. 669, che ha introdotto nel codice civile l’art. 2645 bis. relativo alla trascrivibilità di contratti preliminari) e della giurisprudenza poi, ha spinto inevitabilmente le parti a rifugiarsi in “preliminari di preliminari”, che si sottraggono alla disciplina del preliminare ordinario, restando al di fuori del confine di regolamentazione legislativa, così che gli stessi possano rappresentare un’efficiente “valvola di sfogo” per l’autonomia privata, laddove le parti non si sentano ancora pronte a porre in essere un accordo vincolante (v. A. DI MAJO, La “normalizzazione” del preliminare, in Corr. giur., 1997, fasc. 2, 131-132, in cui l’autore richiama la teoria dell’inadempimento efficiente di matrice anglosassone, secondo la quale il contraente dovrebbe valutare la convenienza dell’affare, tenendo in considerazione i costi che potrebbero derivare da un inadempimento del primo vincolo preliminare – in termini di risarcimento del danno per non aver concluso il secondo preliminare – e i costi che potrebbero scaturire, nell’ambito del rapporto contrattuale, dall’aver dato esecuzione al secondo contratto preliminare. A titolo esemplificativo, si pensi alla pattuizione di un certo prezzo nell’ambito di un primo accordo preliminare per l’acquisto di un determinato immobile che, a distanza di un anno – quando le parti sono in procinto di porre in essere il contratto preliminare vero e proprio – si rileva non avere più il valore che era stato concordato. In tal caso, se ovviamente i costi derivanti dal rimanere inadempiente fossero minori di quelli a cui il promissario acquirente andrebbe incontro con la stipulazione del compromesso e poi del definitivo – dato il “cattivo affare” posto in essere – a questi converrebbe non dare seguito alla contrattazione e rifiutarsi di adempiere).
Con ciò non si vuol sostenere che il legislatore non sarebbe dovuto intervenire per disciplinare il contratto preliminare, ma si vuole solo far notare che esisterà sempre uno spazio nell’iter di formazione del contratto in cui una parte è libera di scegliere di non dare esecuzione ad un negozio, senza che ciò gli venga imposto coattivamente, rischiando evidentemente di pagare un risarcimento del danno nel caso in cui il suo rifiuto non sia giustificato.
La suddetta descrizione del preliminare di preliminare non si discosta di molto dall’attuale conformazione che ne è stata data dalla Corte Suprema (Cfr. DI MAJO, Il preliminare torna alle origini, in Giur. it., 2015, 1070, in cui l’autore ritiene infatti che la sua provocazione, fatta in tempi più remoti, sia stata in qualche modo accolta dalla giurisprudenza di legittimità, che ha concretamente riconosciuto alle parti la libertà di porre in essere accordi di tal genere), la quale infatti racchiude in tale figura intese che non contemplano un obbligo a contrarre, ma dalle quali può derivare al massimo un ristoro monetario – seppur a titolo di responsabilità contrattuale – per aver ingiustificatamente rimesso in discussione quanto, fino a quel momento, pattuito.
Pertanto, se è vero quanto precede, risulta arduo pensare che una tale configurazione del preliminare di preliminare possa rappresentare la conclusione di un affare, vista e considerata la “fragilità” dell’accordo in esame e l’incapacità della giurisprudenza di conferire allo stesso una propria autonomia e qualificazione giuridica.