Cass. 1 febbraio 2016 n. 1869, Rel. Ferro, traccia il confine della nozione di consumatore in funzione dell’accesso al prisma rimediale allestito dalla l. 27 gennaio 2012, n. 3 per sterilizzare le crisi da sovraindebitamento dei soggetti sottratti al raggio applicativo della legislazione fallimentare.
La ricostruzione emergente dal reticolo motivazionale diverge dalla traiettoria ermeneutica segnata da un esiguo drappello di interpreti inestricabilmente avvinti al tenore letterale dell’art. 6, comma 2, l. b) della l. 3/2012, stando al quale lo status consumeristico (sintagma più consono di quelli che valorizzano i connotati qualitativi intrinseci associati alla figura del consumatore, che non esprime – come opportunamente rimarcato da ALESSI, La disciplina generale del contratto, Torino, 2015, 108 – una qualità del soggetto stabilmente ravvisabile nei rapporti sociali ed economici, bensì una dimensione relazionale estranea ad un’attività economica organizzata e misurabile con riferimento allo scopo dell’operazione negoziale di volta in volta posta in essere) è riconducibile alla persona fisica che abbia assunto obbligazioni esclusivamente per finalità estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta.
Il paradigma italiano di composizione delle crisi da sovraindebitamento è stato inciso dal d.l. n. 179 del 18 ottobre 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 221 del 17 dicembre 2012. L’innovazione più dirompente rispetto all’impianto originario predisposto dalla l. 3/2012 è rappresentata proprio dall’introduzione di un meccanismo di superamento della bancarotta individuale consacrato esclusivamente al consumatore, scelta di campo che ha obliterato uno dei punti più discussi della previgente disciplina, ossia la regolamentazione indifferenziata dell’insolvenza consumeristica e dell’imprenditore non fallibile. L’iperbole procedurale si rivela sicuramente originale, se non altro perché idonea a schiudere un ventaglio di soluzioni eccentriche rispetto a qualsiasi altro sentiero concorsuale.
L’ordito normativo prevede, infatti, che il consumatore sovraindebitato possa presentare un piano di rientro dalla sua esposizione debitoria al tribunale competente per il giudizio di omologazione senza esser tenuto a raccogliere il consenso dei creditori. In altri termini, il soggetto che si sia indebitato al di fuori dell’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta non è chiamato, a differenza di colui il quale presenti la canonica proposta di accordo di composizione, a confrontarsi con il ceto creditorio, la cui voce è rimpiazzata da un più penetrante – almeno in linea teorica – sindacato giudiziale.
Il dispositivo semplificato di superamento dell’insolvenza consumeristica trova il suo addentellato empirico nel tendenziale disinteresse della platea creditoria al salvataggio del sovraindebitato che accede al credito per soddisfare bisogni della vita quotidiana, e ciò essenzialmente in virtù del fatto che le relative masse debitorie si rivelano sovente quantitativamente irrilevanti (il segmento merceologico del credito al consumatore è connotato, del resto, da portafogli assai articolati che sottendono rapporti creditizi dagli importi relativamente modesti, con conseguente frazionamento del rischio; cfr., per questo condivisibile approccio analitico PIEPOLI, Sovraindebitamento e credito responsabile, in Banca, Borsa, Titoli di Credito, 2013, 41, nonché GUIOTTO, La continua evoluzione dei rimedi alle crisi da sovraindebitamento, in Il Fallimento, 2012, 1285).
I tratti differenziali con il sistema di governo del sovraindebitamento dei soggetti non fallibili diversi dal consumatore sono ovviamente lampanti sia per quanto attiene alla fase di presentazione del piano di ristrutturazione sia per quanto concerne il decreto di omologazione emesso dall’organo giurisdizionale.
Lo iato che divarica le due procedure è invece segnato dallo spartiacque della nozione di consumatore: come puntualmente rilevato dal collegio di legittimità, il farraginoso testo legislativo non considera sufficiente, in controtendenza rispetto al d.l. 212/2011 (slancio nomopoietico prodromico al varo della l. 3/2012) la prevalenza delle obbligazioni per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, ma ne esige, in termini ineluttabili, l’esclusività.
La partitura legislativa lascia margini per un’interpretazione restrittiva atta a costringere il consumatore che abbia assunto obbligazioni prevalentemente per finalità estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta al sentiero della procedura ordinaria destinata ai soggetti non fallibili e, di conseguenza, a misurarsi con il ceto creditorio ai fini della composizione della crisi. Un simile esito, anche nell’equilibrata lettura offertane dalla pronuncia annotata, depotenzia irragionevolmente la portata applicativa del meccanismo di superamento della decozione consumeristica, conseguenza che sarebbe stata senz’altro schivata riesumando la parabola definitoria tratteggiata dall’art. 3, comma 1, lett. a) del Codice del consumo (si era già dato conto di tale incongruenza in ALECCI, La nuova disciplina in materia di composizione della crisi da sovraindebitamento: modifiche alla legge 27 gennaio 2012 n. 3, in Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, 2013, 1).
Per innescare la sequela procedimentale il consumatore sovraindebitato puro è tenuto a produrre una documentazione idonea a ricostruire compiutamente la propria situazione economica e patrimoniale nonché una relazione particolareggiata a cura dell’Organismo di composizione della crisi (autentico dominus della procedura, se sol si pensa al fatto che il giudice, nell’epoca delle irresistibili lusinghe semplificatorie, viene interpellato in una fase latamente cautelare e, successivamente, per suggellare l’accordo – quando non si tratti di piano del consumatore che, come detto, dall’intesa con la maggioranza del ceto creditorio prescinde – con un decreto di omologazione nel quale confluiscono e sono risolte eventuali contestazioni dei creditori, raccolte e filtrate dallo stesso Organismo), il cui contenuto deve tassativamente indicare: a) le cause dell’indebitamento e della diligenza impiegata dal consumatore nell’assumere volontariamente le obbligazioni, b) l’esposizione delle ragioni dell’incapacità di adempiere le obbligazioni assunte, c) il resoconto sulla sua solvibilità negli ultimi cinque anni, d)l’indicazione dell’eventuale esistenza di atti impugnati dai creditori, e) il giudizio sulla completezza e sull’attendibilità della documentazione depositata a corredo della proposta nonché sulla probabile convenienza del piano rispetto all’alternativa liquidatoria.
Il contenuto del piano di ristrutturazione è, ad ogni buon conto, modulato sulla falsariga di quello predisposto dall’imprenditore non fallibile: deve pertanto essere assicurato il regolare pagamento dei crediti impignorabili individuati dall’art. 545 c.p.c. e l’esatto adempimento di determinate obbligazioni tributarie, di cui la pianificazione può prevedere esclusivamente la dilazione (art. 7, comma 1, terzo periodo). La proposta avanzata dal consumatore non evoca – né potrebbe evocare – le inflessioni aziendalistiche del Business restructuring, Asset restructuring e Debt restructuring, in quanto – come evidenziato dai giudici di legittimità – dalle ondulazioni del piano non prende forma una strategia di superamento della crisi d’impresa, bensì soltanto una rimodulazione dell’esposizione debitoria causata da un’esuberante propensione al consumo (una severa – e per certi versi esagerata – censura alla trasposizione dello strumento pianificatorio nel microcosmo dell’insolvenza del consumatore è formulata da DI MARZIO, Sulla composizione negoziale delle crisi da sovraindebitamento (note a margine dell’AC n. 2364), in Dir. Fall., 2010, 663, le cui riserve sulla previsione di un’eventuale suddivisione in classi della platea creditoria si rivelano, invece, affatto condivisibili, se non altro perché il consumatore non accusa quasi mai un’esposizione debitoria tale da dover ricorrere a questo espediente e, in via del tutto assorbente, poiché la caratura semplificativa della raccolta del consenso che alcuni avevano individuato nell’eventuale distribuzione in classi dei creditori ha ormai perso la sua valenza pratica a causa del fatto che la nuova disciplina ha espropriato questi ultimi del diritto di voto sulla proposta).
La fase di omologazione esibisce, consequenzialmente, ulteriori sfumature rispetto alla procedura ordinaria riservata all’imprenditore non fallibile. Il giudizio sul piano presentato dal consumatore sovraindebitato, infatti, non si arresta alla verifica della generica idoneità ad assicurare il pagamento dei crediti che devono essere soddisfatti regolarmente e integralmente, ma deborda in un penetrante accertamento sulla sua fattibilità (art. 12 bis, comma 3), arricchito dalla possibilità di esperire il cd. cram down, che, in considerazione dell’assenza di una qualsiasi forma di confronto con i creditori, si rivela a dir poco essenziale per non mandare in frantumi l’integrità di ciascun vincolo obbligatorio.
La valutazione della sostenibilità giuridica dell’operazione di composizione (sui concetti di fattibilità in senso giuridico ed in senso economico e sui limiti del sindacato giudiziale – che non va calibrato alla stregua di un diagnosi di secondo grado sull’attestazione del professionista – cfr., per tutti, DI MAJO, Il percorso “lungo” della fattibilità del piano proposto nel concordato, in Il Fallimento, 2013, 291) si annoda al giudizio di meritevolezza sulla condotta del debitore, opportunamente declinato dai giudici di legittimità in un’ottica retrospettiva polarizzata sugli eventuali profili colposi nella determinazione del sovraindebitamento. All’organo giurisdizionale è sostanzialmente demandato lo svolgimento di un’indagine rigorosa sul contegno e sulla buona fede del consumatore (da intendersi- sembra- non come assenza di malafede o, rievocando suggestioni d’Oltralpe, come spirito collaborativo del debitore nell’arco della procedura, ma alla stregua di condotta diligente fotografata al momento dell’erogazione del finanziamento). La prognosi giudiziale si presta ad assumere, pertanto, i lineamenti di un autentico circuito, non sempre immune da pericolose correnti parassite (come apprezzabilmente argomentato da PELLECCHIA, Composizione delle crisi da sovraindebitamento: il “piano del consumatore” al vaglio della giurisprudenza, in Dir. civ. cont. 3 giugno 2014, che rintraccia le vestigia di un giano bifronte tra la disciplina del sovraindebitamento e quella del credito al consumatore incastonata nel TUB: “l’una, severa nella valutazione della “meritevolezza” del debitore con riguardo alla natura non colposa del sovraindebitamento; l’altra, generica e indeterminata sul piano dei rimedi con riguardo alla negligente valutazione, da parte del creditore, del c.d. merito di credito del richiedente il finanziamento”) tra i nodi del quale è astrattamente possibile sterilizzare gli effetti nefasti del credito irresponsabile, purché si eviti, in concreto, di estrapolare con sfumature punitive da questa dimensione rimediale quel che difficilmente è conseguibile in termini risarcitori dai panneggi sibillini dell’art. 124 bis del TUB (lapidario, sul punto, l’ammonimento scandito da MODICA, Tutela del sovraindebitamento incolpevole (L. 3/2012) o sanzione per omessa verifica del merito creditizio (art. 124 bis TUB)? Il “piano del consumatore” in funzione punitiva, in Dir. civ. cont. 29 settembre 2014). Tale approccio ermeneutico si rivela, del resto, pienamente coerente con la possibilità (art. 8, comma 3) di innestare nelle increspature della proposta eventuali restrizioni all’accesso al mercato del credito al consumo, all’utilizzo degli strumenti di pagamento elettronico a credito e alla sottoscrizione di strumenti creditizi e finanziari (per quanto sarebbe stato forse più opportuno, sulla scia di quanto osservato dalla stessa MODICA, Profili giuridici del sovraindebitamento, Napoli, 2012, 337, sancire l’obbligatorietà di siffatti accorgimenti).
Nelle fenditure del giudizio di meritevolezza s’insinua, d’altra parte, la problematica interazione- a dire il vero trascurata nella sua valenza sistematica dalla decisione della Corte- tra il polo giurisdizionale e l’Organismo di composizione della crisi, effetto di un trend normativo spiccatamente ancillare all’egemonia dell’intermediazione giuridica. Il professionista-attestatore svolge, infatti, un ruolo di interlocutore permanente del debitore e del giudice, in quanto ogni modifica, ogni ritocco, ogni integrazione della proposta sono costantemente portati al suo esame. Ciò impone alla dimensione giudiziale di devitalizzare le potenziali derive patologiche celate negli ingranaggi dell’opera prestata degli Organismi di composizione, la cui consulenza al debitore-cliente- oggi più che mai esaltata dai ritocchi al contenuto dell’atto di precetto (il restyling del quale contempla adesso l’obbligo di avvisare il debitore della possibilità di attivare la piattaforma rimediale predisposta dalla l. 3/2012)- può pericolosamente sovrapporsi al controllo sulla veridicità dei dati contenuti nel piano di ristrutturazione.
Far confluire nella vicenda del sovraindebitamento del consumatore una meteora di “forza maggiore sociale” (la cui translitterazione in chiave giuridica esprime un’autentica rimodulazione non negoziata del debito), esito ben più dirompente di quello che deriverebbe da una generale operatività del principio di maggioranza (le cui perniciose spirali sono state comunque aspramente e condivisibilmente fustigate da TERRANOVA, Il concordato “con continuità aziendale” e i costi dell’intermediazione giuridica, in Dir. Fall., 2013, 59, il quale ha denunciato- quasi con cadenze roscelliniane- lo svuotamento semantico di nomina giuridici sempre più prossimi a degradare a flatus vocis), non può non andar di pari passo con il consolidamento di una penetrante analisi dell’organo giurisdizionale sulle coordinate della ristrutturazione debitoria, la cui omologazione impone un sacrificio non certo indifferente al ceto creditorio, in seno al quale, peraltro, i creditori privilegiati potrebbero esser chiamati ad accontentarsi finanche di un adempimento parziale. La vivisezione di elementi cruciali quali la causa del credito, lo status del consumatore ed il suo contegno al momento dell’erogazione del prestito si esaurisce, invero, in un’operazione delicatamente articolata- nonché facilmente deformabile sullo sfondo della desolante laconicità del dettato normativo sul fronte della valutazione del merito creditizio esibito dal potenziale destinatario di finanziamenti- e, pertanto, assolutamente non appaltabile a figure differenti da quelle giurisdizionali (cfr. PERRINO, La “crisi” delle procedure di rimedio al sovraindebitamento (e degli accordi di ristrutturazione dei debiti), in Giusitizia civ., 2014, 2, 435, che scruta i nuovi dispositivi volti a reggere l’onda d’urto dell’insolvenza consumeristica attraverso la plasticità rimediale pulsante nella legislazione fallimentare). Ecco perché non può non etichettarsi come stucchevole l’eccentrica rivisitazione della materia offerta da Trib. Busto Arsizio, 16 settembre 2014, la cui inopportuna amplificazione mediatica ha sortito imbarazzanti aberrazioni cromatiche sul piano prospettico della reale funzione dei meccanismi di composizione delle crisi da sovraindebitamento, almeno nella misura in cui ha storpiato il tessuto normativo trasfigurandolo in un ingegnoso grimaldello attraverso il quale spalancare le porte ad una sostanziale impunità fiscale. Procedendo all’omologazione di un piano del consumatore tra le ondulazioni del quale emerge quale unico creditore l’agente di riscossione Equitalia, il giudice di merito ha difatti polverizzato in poche battute un debito dell’ammontare pari a circa 86.000 euro travisando, da un lato, il tenore dell’art. 6, lett. b) e violentando, dall’altro, il concetto stesso di obbligazione civile. Non occorre, d’altra parte, evocare il regolare e condivisibile flusso giurisprudenziale che predica l’irriducibilità dello statuto dell’obbligazione tributaria a quella di diritto comune per desumere l’inapplicabilità di tale diaframma rimediale alle fattispecie aventi pregnanza fiscale (tant’è vero che lo stesso dettato normativo esclude perentoriamente dalla negoziazione- se non per la dilazione- sia le imposte armonizzate sia le ritenute operate e non versate), le quali possono al più influire- ove debitamente provato- sulla capacità di adempimento delle obbligazioni contratte dal consumatore e non anche di quelle sorte ex lege.
Il rigido presupposto soggettivo di ammissione alla procedura non concordataria (art. 12 bis, l. 3/2012) è reso oggetto di un’accurata disamina da parte della Suprema Corte, che presenta il pregio di catturare la valenza funzionale del legame intercorrente tra l’essenza del rapporto di consumo e l’azionabilità del dispositivo rimediale prescindente dall’accordo con la platea creditoria.
Tra le numerose pronunce affastellate sul tema, Trib. Milano, 16 maggio 2015, aveva, ad esempio, metabolizzato- sulla traiettoria disegnata da Trib. Bergamo, 16 dicembre 2014- un’ortodossa lettura dell’art. 6, comma 2, lett. b) della l. 3/2012, scorgendo nel meccanismo semplificato di superamento dell’insolvenza un sentiero percorribile esclusivamente dal consumatore puro, ossia da colui il quale avesse contratto debiti per scopi del tutto estranei all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. L’esclusione del consumatore ibrido dal vantaggioso microsistema rimediale veniva calibrata ostruendo il varco a qualunque forma di mitigazione informata alla teorica del promiscuità dello status consumeristico, sulla base dell’assunto per cui gli eccezionali benefici scaturenti da un’omologazione non preceduta da alcun voto da parte dei creditori sul contenuto del piano si rivelerebbero incompatibili con la ricorrenza di un fascio di rapporti di consumo anche residualmente contaminato da venature professionali.
La sentenza emessa dal Supremo Collegio, servendosi della sponda concessa dall’art. 363, comma 3, c.p.c. dopo aver discutibilmente dichiarato inammissibile il ricorso proposto (ed invero, come giustamente posto in luce da PAGNI, Procedimento e provvedimenti cautelari ed esecutivi, in Il Fallimento, 2012, 1063, il rinvio operato dalla legge alle disposizioni dettate dagli artt. 737 e ss. c.p.c. non preclude la strada del ricorso straordinario per cassazione nell’ipotesi in cui l’inammissibilità venga dichiarata non per carenze documentali – potendo, in tal caso, esser riproposta la domanda- bensì per il difetto dei requisiti di accesso alla procedura), chiarisce apprezzabilmente che il consumatore sovraindebitato può anche indossare le vesti di imprenditore o di professionista, a condizione che al momento del deposito della proposta di piano non affiorino tra i debiti attuali quelli contratti in relazione allo svolgimento dell’attività economica eventualmente svolta. L’opzione ermeneutica calibrata dall’impianto motivazionale, sfruttando l’appiglio offerto da vari (quantunque non tutti persuasivi) spigoli normativi tra i quali spicca quanto disposto dall’art. 12 bis, comma 3 con riferimento a crediti condensati in specifici rapporti tributari (risorse comunitarie, imposta sul valore aggiunto, ritenute operate e non versate) che esprimono un’immediata riferibilità socio-economica alla monade imprenditorial-professionale, consente pertanto al professionista intenzionato a rimodulare quella porzione della sua esposizione debitoria esclusivamente colorata dalla causa di consumo l’accesso alla procedura di composizione slegata dal confronto con le centurie creditorie.
A ben vedere, tuttavia, la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità si rivela meno dirompente, almeno rispetto al regolare flusso della giurisprudenza di merito poc’anzi segnalato, di quanto possa apparir di primo acchito. Ed infatti, essa rappresenta né più né meno che il corollario di una corretta concezione delle dinamiche di consumo congegnata non tanto nell’ottica del singolo rapporto quanto nella prospettiva della generalità delle “relazioni di debito”. Il che equivale ad asserire, in termini assolutamente accettabili, che i debiti d’impresa non rilevano e non debbono rilevare alla stregua di fatto storico in sé e per sé considerato, essendo semplicemente bastevole che essi non residuino allorquando la procedura di ristrutturazione viene innescata.
Ne deriva che colui il quale intende ristrutturare debiti neanche mediatamente riconducibili allo svolgimento di attività imprenditoriali o professionali non può vedersi sbarrato, per il solo fatto che continui ad esercitarle, l’accesso al sentiero di composizione prescindente dall’accordo con i creditori. Il requisito soggettivo per fruire dei benefici procedimentali connessi alla procedura rubricata “Piano del consumatore” si sublima, difatti, in una specifica consistenza dell’insolvenza teleologicamente considerata, la cui stratificazione contempli esclusivamente obbligazioni contratte per fronteggiare esigenze personali o familiari (si era già espresso in tal senso Trib. Verona, 8 maggio 2015). La chiave di lettura sfoderata dalla pronuncia di legittimità non sembra, allora, immettere nulla di originale sul versante del rapporto di funzionalità al privato consumo delle obbligazioni dedotte all’interno del piano, limitandosi a stigmatizzare l’approccio esegetico- indubbiamente inficiato da palese irragionevolezza- postulante l’esclusione dalla trafila semplificata di governo del sovraindebitamento di quei soggetti esercenti attività d’impresa che si accingono a sanare la propria esposizione debitoria di matrice squisitamente consumeristica.
Né dovrebbe suscitare lo stupore che ha invece provocato tra i primi commentatori l’allusione, rintracciabile nell’inciso conclusivo del provvedimento, ai rapporti obbligatori sorti per far fronte ad esigenze anche di terzi, in quanto è ormai pacificamente riconosciuto in sede europea (emblematica, tra le altre, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 3 settembre 2015, C-110/14) che l’accessorietà connaturata alle fattispecie fideiussorie o a quelle di garanzia immobiliare non priva dello status di consumatore il soggetto che le abbia prestate per finalità che esulano completamente (e che siano, dunque, estranee a qualunque forma- anche fraudolentemente confezionata- di nesso funzionale tra la sua dimensione imprenditoriale e quella del soggetto garantito) dall’attività economica eventualmente svolta.
Decifrato l’apparato legislativo alla luce di tali rilievi critici, ecco che allora il riferimento operato dal terzo comma dell’art. 12 bis ai crediti di natura pubblicistica assume tutt’altro che le sembianze di un mero refuso, giacché gli eventuali debiti di cui all’art. 7, comma 1, terzo periodo, non interferiscono per nulla negli ingranaggi del rapporto di funzionalità al privato consumo o del connotato dell’esclusività perentoriamente declinato dall’art. 6, comma 2, lett. b), in quanto si limitano a riflettere poste debitorie esplicitamente sottratte alla disponibilità del soggetto sovraindebitato (se non nei limiti della possibilità di dilazionarne il pagamento).
È pertanto inevitabile prendere atto che ciò che la Cassazione designa come logica di generale favor verso il sistema di composizione del sovraindebitamento consumeristico non può trovare- come peraltro implicatamente desumibile dai panneggi della motivazione- efficace implementazione per via ermeneutica. Ed infatti, soltanto l’ennesima interpolazione al travagliato tessuto della l. 3/2012, abdicando al criterio dell’esclusività a favore di quello- già affiorato nel d.l. 212/2011- della prevalenza, consentirebbe all’organo giurisdizionale di ammettere alla procedura agevolata- agganciando le coordinate di un approccio già sperimentato dalla giurisprudenza comunitaria- quelle persone fisiche nel cui fardello debitorio la presenza di rapporti obbligatori riconducibili all’attività economica eventualmente svolta risulti del tutto marginale e, quindi, trascurabile nell’orizzonte complessivo della bancarotta individuale.