La Corte di Cassazione è stata nuovamente chiamata ad esprimersi in merito alla peculiare normativa disciplinante la registrazione del contratto di locazione (Cass., 13 dicembre 2016, n. 25503).
In primo grado il locatore di un immobile ad uso non abitativo richiedeva, in seguito all’inadempimento della controparte, la risoluzione del contratto stipulato, ma non registrato, ed il risarcimento del danno da illegittima occupazione. Il Tribunale accoglieva la domanda e la decisione veniva poi confermata dalla Corte d’Appello di Bologna (sentenza n. 1778/2013 del 17.01.2013), la quale osservava che il contratto era da considerarsi inefficace perché privo di registrazione: l’adempimento fiscale veniva considerato alla stregua di una condicio iuris di efficacia del contratto. Di conseguenza l’occupante non poteva esimersi dall’obbligo di pagamento del canone pattuito “come corrispettivo della detenzione intrinsecamente irripetibile”.
La parte soccombente proponeva ricorso per cassazione, deducendo la nullità del contratto di locazione non registrato ai sensi dell’art. 1, comma 346°, della l. 30 dicembre 2004 n. 311.
La Suprema Corte di Cassazione, muovendo dal dato letterale della norma, ha stabilito che i contratti di locazione, qualora non siano registrati, sono irrimediabilmente affetti da nullità. Effettivamente non dovrebbe porsi alcun problema esegetico, vista la chiarezza con cui viene disposta l’invalidità (“I contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati”).
Ad avviso dei giudici di legittimità, inoltre, è errato ritenere applicabile la disposizione di cui all’art. 1458 c.c. alla fattispecie contrattuale nulla: l’estensione della disciplina della risoluzione del contratto porterebbe a configurare il diritto, in capo al locatore, di ritenere quanto percepito a titolo di canone di locazione. Poiché i pagamenti effettuati dal conduttore in forza di un contratto nullo costituiscono un indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., quest’ultimo avrà diritto di ripetere ciò che ha versato. Il locatore, invece, potrà ottenere l’indennizzo per il mancato godimento del bene immobile occupato senza giusta causa, solamente provando il danno patito o l’ingiustificato arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c. In aggiunta non può ritenersi corretto quantificare l’indennizzo per la mancata disponibilità dell’immobile in valore pari al canone originariamente stabilito dalle parti nell’accordo non registrato; tale equiparazione, utilizzata nei primi due gradi di giudizio, ha subito la censura da parte dei giudici di legittimità. L’art. 2041 c.c., tuttavia, prevede che l’indennizzo debba essere correlato all’arricchimento ottenuto dalla controparte, che nella fattispecie in esame potrebbe essere quantificato nella somma costituita dai singoli importi dei canoni di locazione non pagati, ovvero ripetuti.
Parte della dottrina, contrariamente a quanto affermato in sentenza, ritiene che il locatore non possa utilmente esperire l’azione generale di arricchimento, siccome la domanda risulterebbe priva di meritevolezza, in ragione della nullità per contrarietà a norme di ordine pubblico del rapporto negoziale sottostante (R. CALVO, La locazione, in Trattato di diritto privato, a cura di Bessone, 2016, 4). Ne consegue che il conduttore possa legittimamente svincolarsi dall’obbligazione di pagamento e ciò parrebbe giustificato dall’intenzione del legislatore di punire il locatore colpevole di evasione fiscale (Cass., 13 dicembre 2016, n. 25503, con nota di R. CALVO, Contratto di locazione, nullità erariale e arricchimento senza causa, in Corr. giur., I, 2017, 11).
Al fine di comprendere al meglio le problematiche collegate alla forma di invalidità in esame, è doveroso compiere un breve excursus sulla copiosa, ed a tratti priva di chiarezza, disciplina del contratto di locazione immobiliare.
Il legislatore, con la l. 311/2004, ha ricondotto al mancato adempimento di un obbligo di natura fiscale, come quello di registrazione del contratto di locazione, notevoli conseguenze sul piano civilistico, dal momento che ne deriva la nullità del contratto. Tale impostazione risulta contrastare con l’opinione dottrinale, per lungo tempo dominante e quasi mai contraddetta dal legislatore, secondo cui l’inadempimento di un obbligo tributario genera una mera irregolarità, dunque è insuscettibile di determinare effetti invalidanti sul negozio giuridico (V. CUFFARO, Patti contrari alla legge (contratto di locazione e nullità speciali), in Riv. dir. civ., 1999, I, 487; A. GENTILI, Le invalidità, in I contratti in generale, a cura di Gabrielli, II, Torino, 2006, 1441). La tesi è stata recepita dalla giurisprudenza (ex multis Cass., 22 luglio 2004, n. 13621, in Giur. It., 2005, 112) e perfino dal legislatore: l’art. 10, comma 3°, l. 27 luglio 2000, n. 212, “Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente”, enuncia il principio per cui “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”. Tuttavia, al fine di provare l’illegittimità della scelta legislativa compiuta nel 2004, non risulta utile invocare lo “Statuto”, in quanto, pur essendo molto significativo sul piano simbolico, non è dotato della capacità di limitare la potestà legislativa futura perché legge di rango ordinario.
I giudici costituzionali, chiamati a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 346°, l. 311/2004, hanno affermato che la disposizione ha elevato “la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell’art. 1418 c.c.” (Corte Cost., ord., 5 dicembre 2007, n. 420). Il principio di separazione delle sfere di influenza del diritto tributario e civile continua a trovare applicazione nel caso di omesso pagamento dell’imposta di registro concernente un contratto registrato: quest’omissione non comporta alcun effetto giuridico sulla validità del contratto.
L’invalidità di cui si sta trattando risulta sui generis poichè non deriva da un vizio genetico del negozio, ma dal mancato adempimento di un’obbligazione tributaria che presuppone la valida conclusione del contratto stesso. L’istituto della nullità è tradizionalmente ricollegato ad un vizio originario ed intrinseco all’atto, mentre la registrazione è una formalità prescritta dalla legge per scopi estranei agli interessi delle parti, che può essere adempiuta solamente in un momento successivo al perfezionamento dell’accordo. Non può non sorprendere l’emanazione di disposizioni che sanciscono la nullità per inosservanza di un onere estraneo agli interessi dedotti nel contratto, soprattutto all’interno di una normativa nella quale per lungo tempo le prescrizioni di invalidità hanno svolto il ruolo di protezione del contraente debole.
La ratio legis, in questo frangente, è quella di contrastare l’evasione fiscale, attuata sottraendo alla base imponibile il reddito derivante dalla locazione, scoraggiando la mancata registrazione dei contratti di locazione.
Gli autori che si sono trovati ad affrontare il tema hanno fornito differenti interpretazioni dell’art. 1, comma 346°, l. 311/2004.
Alcuni hanno ritenuto che la disposizione individui un ulteriore elemento costitutivo del contratto di locazione, rendendolo a formazione progressiva (N. SCRIPELLITI, Ganasce fiscali sulle locazioni non registrate: prime considerazioni di una nuova ipotesi di nullità, in Arch. locaz., 2005, 111), altri hanno sostenuto che l’efficacia dell’accordo è da considerarsi sospensivamente condizionata all’adempimento fiscale, cosicché il contratto dispiegherebbe effetti sin dalla data della stipulazione una volta adempiuta la formalità richiesta (G. VIGNA, Finanziaria, le disposizioni dei commi da 341 a 344 e 346 del suo articolo unico, in Arch. locaz., 2005, 395). Quest’ultima soluzione, pur contrastando con il dato testuale della norma, è stata accolta dalla giurisprudenza di merito (Trib. Modena, 12 luglio 2006, in Giust. civ., 2007, II, 484, con nota di M. DI MARZIO, La nullità del contratto di locazione per omessa registrazione), ed è quella recepita dalla Corte d’Appello di Bologna chiamata a pronunciarsi sulla vicenda che si sta commentando.
In passato una soluzione giuridica similare era stata proposta dagli autori chiamati ad interpretare una singolare comminatoria di nullità: l’art. 1, r.d.l. 27 settembre 1941, n. 1015, invero, sanciva la nullità degli atti di trasferimento di immobili ove non registrati nei termini di legge. L’enfatica terminologia utilizzata dal legislatore venne interpretata come introduttiva di una condicio iuris, la quale negava efficacia ad un negozio altrimenti perfetto (F. SANTORO PASSARELLI, Atti non registrati. Nullità. Promessa verbale. Provvigione, in Riv. dir. civ., 1943, 194).
In dottrina è stata avanzata un’ulteriore proposta, al fine di circoscrivere il significato della comminatoria di nullità del contratto di locazione non registrato: applicare il criterio interpretativo sistematico, dunque porre in rilievo il contesto nell’ambito del quale la disposizione è collocata (V. CUFFARO, La prescrizione di nullità del contratto di locazione non registrato: una norma dimenticata?, in Corr. mer., 2006, 153). L’art. 1, comma 342°, l. 311/2004, infatti, prevede che “in caso di omessa registrazione del contratto di locazione di immobili, si presume, salva documentata prova contraria, l’esistenza del rapporto di locazione anche per i quattro periodi di imposta antecedenti quelli nel corso del quale è stato accertato il rapporto stesso”. L’autore ritiene che la disposizione di cui all’art. 1, comma 5, 346°, l. 311/2004, debba essere intesa come complementare alla norma citata. Avrebbe la funzione di negare efficacia al contratto non registrato, qualora venisse prodotto dal locatore al fine di vincere la presunzione relativa di cui sopra; solamente nei confronti del Fisco, quindi, il contratto di locazione non registrato dovrebbe essere considerato privo di ogni effetto in quanto nullo. Quest’interpretazione concorda con l’idea per cui la ratio della normativa sia quella di contrastare l’evasione fiscale, ma circoscrive gli effetti della mancata registrazione dei contratti di locazione ai soli rapporti fra Fisco e contribuente, il quale potrebbe essere chiamato a versare contributi in relazione ad un reddito effettivamente non percepito, come sanzione alla violazione dell’obbligo di registrazione.
In presenza di un contratto di locazione non registrato, ci si trova di fronte ad una relazione inter partes pienamente voluta, formalizzata per iscritto, eventualmente eseguita per un lungo periodo di tempo: si potrebbe affermare che il contratto di locazione abbia goduto di piena validità nell’ordinamento giuridico dei privati, ma non in quello statale (M. RIZZUTI, Contratto di locazione e rapporti di fatto, in Giur. It., 2016, VI, 1356). Dunque, se appare ragionevole che l’accordo non possa essere utilizzato al fine di vincere la presunzione di cui all’art. 1, comma 342°, l. 311/2004, risulta difficile comprendere come non possa dispiegare alcun effetto fra le parti stipulanti.
La giurisprudenza di merito ha risolto in maniera differente una vicenda analoga a quella in commento (Trib. Roma, sez. VI, 21 dicembre 2015, in Giur. It., 2016, VI, 1356). I giudici hanno ritenuto il contratto nullo come valido titolo ai fini del possesso in buona fede dell’immobile e i canoni versati sono stati considerati irripetibili, in quanto pagati in adempimento di un’obbligazione naturale. Tale ricostruzione è configurabile come un recupero del negozio giuridico nullo, che permette ad esso di produrre limitati effetti giuridici, ciononostante non è possibile considerarla alla stregua di una vera e propria sanatoria, in quanto il contratto nullo resta inidoneo a disciplinare il rapporto per il futuro. L’obbligo di pagamento dei canoni fino alla riconsegna dell’immobile, mancando un valido contratto di locazione, non può essere desunto dall’art. 1591 c.c., che forfetizza il risarcimento del danno da ritardata restituzione dell’immobile locato rinviando al canone pattuito.
La peculiarità della fattispecie normativa in esame impone all’interprete di domandarsi quali possano essere le conseguenze da ricondurre ad un eventuale adempimento tardivo. L’ammissibilità della sanatoria parrebbe compatibile con l’interesse dell’erario, in quanto fungerebbe da incentivo alla regolarizzazione successiva. Alcune pronunce di merito hanno ritenuto legittimo configurare la sanatoria del contratto in seguito a registrazione tardiva (Trib. Napoli, 19 ottobre 2009, in Not., 2010, 170).
È doveroso segnalare che la Corte di Cassazione ha sancito l’impossibilità di accogliere forme di sanatoria della nullità del patto volto a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato ex art. 13, comma 1°, l. 431/1998 (Cass., S.U., 17 settembre 2015, n. 18213, in Giur. It., 2016, 324). L’adempimento tardivo dell’onere di registrazione dell’atto contro-dichiarativo non è considerato idoneo a spiegare influenza sulla validità dell’accordo: viene affermato che la registrazione costituisce un adempimento estraneo al contratto, inidoneo a sanare il vizio. Il patto dissimulato è “insanabilmente affetto da nullità per contrarietà a norme imperative”. Ad avviso della Corte “se la sanzione della nullità derivasse dalla violazione dell’obbligo di registrazione, allora sembrerebbe ragionevole ammettere un effetto sanante al comportamento del contraente che, sia pur tardivamente, adempia a quell’obbligo”, mentre così non è ove sia sanzionato “l’atto negoziale avente funzione contro-dichiarativa [… ] insanabilmente affetto da nullità per contrarietà a norma imperativa”. Ragionando in questi termini i giudici di legittimità hanno in parte eluso il problema: hanno affermato che l’invalidità è da ricollegare alla clausola contrattuale contraria a norme imperative, indicante un canone diverso e maggiore, evitando di associare la nullità al difetto di registrazione. Tralasciando le critiche che posso essere avanzate nei confronti di questa soluzione poco convincente, è evidente che la decisione citata non può costituire un valido precedente al fine di precludere la sanatoria del contratto di locazione non registrato, dunque nullo in toto. La fattispecie presa in esame è quella in cui ad un contratto rispettoso del requisito della forma scritta e per il quale sia stato adempiuto l’obbligo di registrazione, si accompagni una controdichiarazione che preveda un canone di locazione maggiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, la quale è destinata a rimanere priva di efficacia in quanto contraria a norma imperativa, quand’anche venisse registrata. La nullità di cui all’art. 1, comma 346°, l. 311/2004, invece, non può che essere ricondotta alla mancata registrazione dell’intero contratto; di conseguenza torna alla mente il passo della decisione sopra citata in cui i giudici aprono alla possibilità di sanatoria ove la nullità derivi dalla violazione di un obbligo tributario. Benché la pronuncia venga citata in maniera ricorrente come un precedente che “nega in radice qualsiasi rilevanza alla registrazione tardiva (del patto sul canone o del contratto)” (V. CUFFARO, Orwell e il contratto di locazione: note a margine dell’art. 1, co. 59, legge 28 dicembre 2015, n. 208, in Corr. giur, 2016, V, 597), a parere di chi scrive potrebbe essere intesa come un’apertura alla sanatoria della nullità contrattuale.
Il legislatore ha, recentemente, previsto un meccanismo di “conversione” del contratto di locazione d’immobili ad uso abitativo non registrato, riformulando l’art. 13, comma 6°, l. 431/1998, così come disposto dall’art. 1, comma 59°, l. 28 dicembre 2015, n. 208. Vengono previsti effetti di indubbio favore nei confronti del conduttore che denunci il contratto non registrato e chieda al giudice, con apposita domanda giudiziale, di accertare l’esistenza del contratto di locazione e di determinare il canone dovuto, che non potrà eccedere il valore minimo definito ai sensi dell’art. 2 ovvero dell’art. 5, 2° e 3° comma l. 431/1998. Inoltre l’autorità giudiziaria ordinerà al locatore la restituzione delle somme percepite in misura superiore al canone determinato giudizialmente.
Il procedimento così delineato non può che scalfire la tesi dell’assoluta insanabilità del contratto, essendo lo stesso legislatore a prevedere una forma di recupero dell’atto nullo in cui il giudice è chiamato ad “accertare l’esistenza del contratto di locazione”, pur avendola limitata ai contratti riguardanti la locazione di immobili ad uso abitativo.
Con la medesima legge di riforma è stato specificato che l’obbligo di registrazione grava sul locatore, il quale deve adempiere nel termine perentorio di trenta giorni dalla stipula del contratto (art. 13, comma 1°, l. 431/1998, così come modificato dalla l. 208/2015). Gli obblighi principali del locatore previsti dall’art. 1575 c.c., pertanto, risultano integrati dall’adempimento citato e dal dovere di comunicazione dell’avvenuta registrazione al conduttore e all’amministratore del condominio, qualora ci sia.
Alla luce dell’attuale art. 13, comma 6°, l. 431/1998, la possibilità di ricondurre effetti sananti alla registrazione tardiva posta in essere dal locatore è da escludere, qualora venga effettuata successivamente alla proposizione dell’azione giudiziaria da parte del conduttore, tuttavia, il quesito rimane aperto ove tale azione non sia stata proposta e, in ogni caso, qualora la locazione riguardi immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo.
La legittimazione a richiedere la registrazione non dovrebbe essere neppure negata al conduttore, in caso d’inerzia della parte locatrice, in modo tale da permettere al locatario di regolarizzare la propria posizione senza obbligarlo a ricorrere all’autorità giudiziaria, ovviamente perdendo i vantaggi economici previsti in caso di accertamento giudiziale. Questa tesi muove dalla considerazione che le molteplici riforme della disciplina locatizia non hanno modificato la normativa regolante l’imposta di registro (d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, in particolare art. 57), secondo la quale l’obbligo di pagamento dell’imposta grava su entrambe le parti ed esse sono considerate solidalmente responsabili.
Non può essere d’ostacolo la disposizione di cui all’art. 1423 c.c., la quale è stata erroneamente interpretata come portatrice di un dogma assoluto di insanabilità del contratto nullo; occorre tenere adeguatamente in considerazione la riserva eccettuativa finale (“se la legge non dispone diversamente”), che implica la non assolutezza del divieto, il quale potrà essere superato qualora la ratio legis della disposizione recante la sanzione della nullità lo legittimi.
Nei lavori preparatori al codice civile si può leggere che il divieto in questione è uno dei tratti più sicuri della nullità, tuttavia i testi si riferiscono alla nullità tradizionale, così come delineata dal legislatore del ’42, non tenendo conto delle nuove forme di nullità caratterizzate da paradigmi diversi. Il tradizionale dogma dell’insanabilità del contratto nullo deve considerarsi in parte superato, alla luce dell’ampia trasformazione che ha subito il sistema delle invalidità negli ultimi anni (S. PAGLIANTINI, Autonomia privata e divieto di convalida del contratto nullo, Torino, 2007).
La questione della sanabilità sembrava essere stata risolta alcuni anni orsono, in quanto il legislatore, con l’art. 3, comma 8°, d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, aveva espressamente disciplinato gli effetti della registrazione tardiva, prevedendo una ricostruzione del contenuto contrattuale ex lege, configurante una sorta di “pena privata” per il locatore ed economicamente vantaggiosa per il conduttore che vi avesse provveduto. Tuttavia, a tre anni dall’entrata in vigore, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della disciplina per eccesso di delega, dunque senza sottoporre la norma allo scrutinio di ragionevolezza (Corte Cost., 14 marzo 2014, n. 50).
Anche l’art. 1, comma 346°, l. 311/2004, è stato più volte sottoposto al vaglio del giudice delle leggi, ma la prima decisione sul punto ha respinto il sospetto di incostituzionalità ritenendo manifestamente infondata la questione formulata per la violazione dell’art. 24 Cost. (Corte Cost., ord., 5 dicembre 2007, n. 420). Successivamente è stata riproposta la questione di illegittimità costituzionale con riferimento a diversi parametri costituzionali (artt. 3, 24 e 41 Cost.), ma ne è stata dichiarata la manifesta inammissibilità (Corte. Cost, ord., 25 novembre 2008, n. 389; Corte Cost., ord., 9 aprile 2009, n. 110).
La disciplina in esame va coordinata con quella dell’imposta di registro (d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131), in particolare con l’art. 3, che prevede la possibilità di registrare i contratti verbali di locazione o di affitto di beni immobili, e l’art. 38, il quale dispone che “la nullità o l’annullabilità dell’atto non dispensa dall’obbligo di chiedere la registrazione e di pagare la relativa imposta”. A parere dello scrivente, non pare possibile ravvisare alcun interesse delle parti alla registrazione di un contratto di locazione verbale e quindi nullo per difetto di forma scritta ai sensi dell’art. 1, comma 4°, l. 431/1998 (per un ampia disamina si veda L. MODICA, Cass. Sezioni Unite 18214/2015: i giudici di legittimità sulla “interpretazione assiologicamente orientata” delle nullità per vizio di forma, in Dir. civ. cont., 28 dicembre 2015). In passato poteva risultare utile nel caso in cui il conduttore fosse stato in grado di dimostrare che la forma verbale venne imposta dal locatore, in quanto il contratto era recuperabile ex art. 13, comma 5°, l. 431/1998, ma il rimedio è stato successivamente abrogato dalla l. 208/2015.
In conclusione, alla luce dell’attuale disciplina locatizia e dei contrastanti arresti giurisprudenziali, non è agevole tentare di fare chiarezza. È da considerarsi ormai consolidato l’orientamento secondo il quale il difetto di registrazione comporta la nullità del contratto di locazione. Rimane aperta la questione dell’efficacia sanante dell’eventuale registrazione tardiva, che solamente una regolamentazione maggiormente coerente potrà risolvere.