Con sentenza Cass. 1209 – 2016 (in Foro it., 2016, I, c. 842, con nota di R. PARDOLESI, Atti emulativi e norme decorative), la Corte di Cassazione ha arricchito il panorama giurisprudenziale in tema di atti emulativi nel condominio (per una ricognizione del quale v. G. BORDOLLI, Atti emulativi nel condominio, in Immobili & proprietà, 2009, p. 723 ss.) affermando il principio secondo cui, «tenuto conto che, ai sensi dell’art. 833 c.c., integra atto emulativo esclusivamente quello che sia obiettivamente privo di alcuna utilità per il proprietario ma dannoso per altri, è legittima e non configura abuso del diritto la pretesa del condomino al rispristino dell’impianto di riscaldamento centralizzato soppresso dall’assemblea dei condomini con delibera dichiarata illegittima, essendo irrilevanti sia la onerosità per gli altri condomini – nel frattempo dotatisi di impianti autonomi unifamiliari – delle opere necessarie a tale ripristino sia l’eventuale possibilità per il condomino di ottenere eventualmente, a titolo di risarcimento del danno, il ristoro del costo necessario alla realizzazione di un impianto di riscaldamento autonomo».
La controversia decisa dalla Suprema Corte era infatti scaturita da una delibera condominiale di disattivazione dell’impianto centralizzato di riscaldamento dell’edificio successivamente dichiarata nulla, con sentenza passata in giudicato, in seguito all’impugnazione dell’unica condomina dissenziente. Quest’ultima aveva pertanto richiesto al condominio l’immediato ripristino dell’impianto centralizzato di riscaldamento, ricevendo una risposta negativa fondata sul rilievo che tutti gli altri condomini si erano nel frattempo dotati dell’impianto autonomo e che, di conseguenza, una siffatta operazione avrebbe comportato ingenti spese (nell’ordine dei 200.000 euro) per la trasformazione e l’adeguamento alle nuove normative della centrale termica.
Di fronte a questo rifiuto la condomina de qua aveva fatto valere in giudizio la sua pretesa, la quale era stata accolta in primo grado, ma respinta in sede d’appello sulla base del principio del divieto dell’abuso del diritto: a tale riguardo il giudice di seconde cure aveva invero osservato, forte anche dell’evoluzione normativa diretta a incentivare la trasformazione degli impianti di riscaldamento centralizzati in quelli autonomi, che «vi sarebbe stata sproporzione fra l’utile conseguibile dall’attrice con il ripristino e quello imposto alla quasi totalità dei condomini, posto che la medesima avrebbe potuto dotarsi di impianto autonomo unifamiliare con adeguato ristoro per le spese al riguardo occorrenti, mentre sarebbe stato particolarmente oneroso per gli altri condomini ripristinare un impianto obsoleto e non in linea con le politiche di risparmio energetico e con le condizioni di sicurezza» (il passo è tratto dalla motivazione della pronuncia di Cassazione in commento).
La Corte di Cassazione censurava, tuttavia, il ragionamento della Corte d’appello, ritenendo che questa avesse «ravvisato l’abuso del diritto formulando un inammissibile giudizio di proporzionalità fra l’utilità conseguibile dalla condomina e l’onerosità che ne sarebbe derivata ai condomini». Secondo gli ermellini infatti, «vertendosi in tema di proprietà ovvero di comproprietà di un bene condominiale», la fattispecie in esame doveva essere decisa sulla base della disciplina degli atti emulativi di cui all’art. 833 c.c., nell’applicazione della quale sarebbe escluso «che il giudice possa compiere una valutazione comparativa discrezionale fra gli interessi in gioco ovvero formulare un giudizio di meritevolezza e di prevalenza fra l’interesse del proprietario e quello di terzi»: l’unico elemento rilevante, sempre secondo la pronuncia in esame, dovrebbe invece essere considerato la sussistenza o meno di un interesse del proprietario al compimento dell’atto, nel caso specifico concretizzato dalla «utilità della condomina di potere usufruire di un servizio comune che era stato illegittimamente disattivato dall’assemblea dei condomini».
Nella motivazione della sentenza gioca, invece, un ruolo alquanto marginale il requisito soggettivo per l’applicazione dell’art. 833 c.c. costituito dall’animus nocendi, con riguardo al quale la Suprema Corte si limita a rilevare che lo stesso deve «essere accertato alla stregua della condotta, quale si è esteriorizzata in concreto, e da cui possa trarsi inequivocabilmente la prova dell’assenza di interesse per il proprietario di compiere un atto pregiudizievole ai terzi».
Così argomentando la sentenza in esame conferma (v. R. PARDOLESI, Atti emulativi e norme decorative, cit., c. 845) la correttezza del rilievo che l’elemento dell’intenzione pregiudizievole, seppure costantemente richiamato dalla giurisprudenza, non è in realtà decisivo per l’applicazione dell’art. 833 c.c., in quanto gli stessi giudici sono soliti affermare – a poco importa se ragionando in una prospettiva in re ipsa, piuttosto che richiamando il principio res ipsa loquitur, o seguendo altri e ancora diversi percorsi argomentativi – che l’animus nocendi va desunto dalla sussistenza dell’elemento oggettivo costituito dall’assenza di utilità dell’atto per il proprietario (C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, 2a ed., Milano, 2017, p. 132; C. RESTIVO, Gli atti emulativi, in La proprietà e i diritti reali minori, a cura di R. Conti, Milano, 2009, p. 527; M. COSTANZA, Art. 833 – Atti d’emulazione, in Codice della proprietà e dei diritti immobiliari, a cura di F. Preite e M. Di Fabio, Torino, 2015, p. 520), «rimanendo comunque insindacabile il processo psicologico che avrebbe condotto il proprietario a comportarsi in un certo modo ritenuto gratuitamente dannoso» (F. MACARIO, Art. 833 – Atti d’emulazione, in Della proprietà. Artt. 810-868, a cura di A. Jannarelli e F. Macario, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2012, p. 396).
Nei suoi esiti applicativi questa interpretazione dell’art. 833 c.c. finisce sostanzialmente per coincidere, quindi, con l’autorevole impostazione che nega la necessità della sussistenza dell’animus nocendi per la configurabilità dell’atto emulativo, ritenendo invece necessario (e sufficiente) l’elemento costituito dall’obiettiva e volontaria direzione dell’atto verso il risultato della molestia o del danno (C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., p. 132). Il giudizio sul carattere emulativo dell’atto si gioca, dunque, interamente sul piano oggettivo dell’(in)utilità del medesimo, sicché diventa cruciale stabilire quale sia la soglia minima e sufficiente di utilità che l’atto deve raggiungere per escludere l’emulazione. Il panorama giurisprudenziale sul punto è peraltro tale da far parlare di «eutanasia dell’art. 833 c.c.» (A. MOLITERNI – A. PALMIERI, «Dormientibus iura succurrunt»: eutanasia dell’art. 833 c.c., in Foro it., 1998, I, c. 69 ss.), in quanto le nostre corti ritengono che a precludere l’applicazione della norma basti, per esempio, un vantaggio minimo, anche solo potenziale o futuro, di carattere non economico bensì estetico/spirituale, finanche illecito, e in ogni caso soddisfatto – con esclusione in radice dal raggio di applicazione della stessa di tutte le condotte omissive – già soltanto dal risparmio di spese ed energie psico-fisiche che deriva dal non compiere una determinata attività (v., anche, C. RESTIVO, Gli atti emulativi, cit., p. 526 s.; R. PARDOLESI, Atti emulativi e norme decorative, cit., c. 845 s.; F. MACARIO, Art. 833 – Atti d’emulazione, cit., p. 394 ss.; M. DOSSETTI, Atti emulativi, in Enc. giur. Treccani, IV, 1988, p. 3; L. GHIDONI, Atti emulativi e abuso del diritto: l’occasione per l’affermazione di un principio?, in Studium Iuris, 2014, p. 680, 682 s.).
Non appare invero azzardato affermare che, sulla scorta di questa interpretazione, l’applicazione dell’art. 833 c.c. finisce per rimanere circoscritta ai casi limite in cui ci si trova «alle prese con l’atto, inesorabilmente stupido, di chi, pur di nuocere all’altro, fa male a se stesso, ponendo in essere, quanto meno, un’attività senza costrutto ma inevitabilmente onerosa» (R. PARDOLESI, Atti emulativi e norme decorative, cit., c. 846 s): emblematico, a tale riguardo, è il comportamento del condomino di minoranza che si oppone all’ammodernamento dell’edificio (antiquato e fatiscente) proposto dagli altri condomini offrendosi di sostenere tutte le spese, anche quelle relative al rifacimento della parte di proprietà esclusiva del condomino opponente, nonché di tenere indenne quest’ultimo da ogni pregiudizio che egli possa subire per l’impossibilità di utilizzare i propri locali durante il periodo di effettuazione dei lavori (App. Torino 12 maggio 1971, in Giur. it., 1973, I, 2, c. 1146, con nota di M. DOSSETTI, su un caso di atto emulativo tra condomini); ma nella categoria degli “atti stupidi” può essere senz’altro ricondotto pure il comportamento del proprietario che installa sul muro di recinzione del fabbricato comune un contenitore avente aspetto di telecamera, posto in direzione del balcone del vicino, che per essere nascosto tra il fogliame degli alberi non può concretamente perseguire la funzione di scoraggiare eventuali malintenzionati (Cass. 11 marzo 2001, n. 5421, riportata da G. BORDOLLI, Atti emulativi nel condominio, cit., p. 725).
V’è da dire che la scarsissima applicazione dell’art. 833 c.c. non sembra suscitare particolari preoccupazioni in un’ampia parte della dottrina, in quanto si ritiene che la funzione pratica della norma venga già ampiamente soddisfatta da altre disposizioni codicistiche quali, principalmente, l’art. 844 c.c. per quanto concerne il conflitto circa usi incompatibili di fondi vicini e l’art. 2043 c.c. per quanto attiene il risarcimento dei danni arrecati dal proprietario (F. MACARIO, Art. 833 – Atti d’emulazione, cit., p. 391 s.; A. GAMBARO, Emulazione, in Digesto disc. priv. – Sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 442; E. GUERINONI, Il divieto di atti emulativi, in Trattato dei diritti reali, diretto da A. Gambaro e U. Morello, I, Proprietà e possesso, Milano, 2008, p. 504, 522 s.).
Secondo taluno, il divieto degli atti emulativi sarebbe del resto destinato ad un ineludibile insuccesso, in quanto è stato elaborato nell’ambito del diritto comune quale limite allo sconfinato jus utendi ed abutendi in cui si sostanziava a quel tempo il diritto di proprietà, la quale, in epoca moderna, è stata progressivamente circoscritta dall’introduzione di limiti legali, ben più precisi e incisivi, che finiscono per contemplare e assorbire la grandissima parte dei comportamenti abusivi suscettibili di essere tenuti dal proprietario (C. RESTIVO, Gli atti emulativi, cit., p. 535).
Di fronte a soluzioni irragionevoli e inappaganti come quella di Cass. n. 1209 del 2016 (è questo il condivisibile giudizio di R. PARDOLESI, Atti emulativi e norme decorative, cit., passim) sembra però doveroso chiedersi se non sia possibile recuperare un effettivo spazio applicativo all’art. 833 c.c., elaborando un criterio di valutazione del requisito dell’(in)utilità più appropriato di quello adoperato dall’interpretazione giurisprudenziale dominante. In questa prospettiva, taluni ritengono che l’emulazione dovrebbe essere esclusa soltanto in presenza di un interesse obiettivamente apprezzabile sulla base di parametri di tipicità sociale anziché di fronte a qualsivoglia vantaggio perseguito dal proprietario (C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., p. 133; M. DOSSETTI, Atti emulativi, cit., p. 3; C. RESTIVO, Gli atti emulativi, cit., p. 532 s., ove ulteriori riferimenti in tal senso).
Un’altra proposta interpretativa suggerisce invece, richiamando il valore della solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e la funzione sociale della proprietà di cui all’art. 42 Cost., di instaurare un giudizio di comparazione fra l’utilità del proprietario e il nocumento arrecato, in modo da ritenere emulativo l’atto che apporti al dominus un vantaggio sproporzionato rispetto al sacrificio imposto ai terzi (seppure con varietà di accenti, in questo senso si esprimono, tra gli altri, R. PARDOLESI, Atti emulativi e norme decorative, cit., passim; U. MATTEI, La proprietà, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, 2a ed., Torino, 2015, p. 347 s.; L.M. MAZZONI, Atti emulativi, utilità sociale, abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1969, II, p. 610; U. NATOLI, La proprietà, 2a ed., Milano, 1976, p. 161 ss.; U. RUFFOLO, Atti emulativi, abuso del diritto e «interesse» nel diritto, in Riv. dir. civ., 1973, II, p. 23 ss.).
Un’operazione di quest’ultimo tipo parrebbe in effetti essere stata svolta dalla giurisprudenza di merito in alcune rarissime occasioni, nella più recente delle quali – che conferma l’impressione di U. MATTEI, La proprietà, cit., p. 274, secondo cui il divieto degli atti emulativi viene confinato dai nostri giudici «alle ipotesi di dispettucci fra vicini» – è stato, per esempio, considerato emulativo il comportamento consistente nello stendere bucato e tappeti in modo da oscurare la finestra dell’appartamento sottostante nella possibilità di utilizzare altre soluzioni o, comunque, di stendere in modo da evitare l’oscuramento delle aperture sottostanti (Trib. Genova, 3 gennaio 2006, riportata da P. GRIMALDI, Art. 833 – Atti d’emulazione, in Libro III. Della proprietà, a cura di L. Gatt e S. Troiano, in Commentario del codice civile, diretto da C.M. Bianca, Roma, 2014, p. 110).
Pur non essendo certamente «né impossibile né repugnante di per sé» (A. GAMBARO, Emulazione, cit., p. 441), il giudizio di comparazione tra l’utilità del dominus e il sacrificio dei terzi viene però considerato estraneo all’art. 833 c.c. tanto dalla giurisprudenza di legittimità (v., per tutte, proprio la pronuncia di Cassazione in commento) quanto dalla dottrina dominante: da un lato, si osserva che non se ne trova traccia nel dettato normativo così come nelle origini storiche del divieto degli atti emulativi; dall’altro, si ritiene che con la comparazione degli interessi in gioco si fuoriesca dal perimetro dell’esercizio del diritto di proprietà per sconfinare nel campo della responsabilità civile, ove il problema può tra l’altro essere affrontato con il più appropriato strumento della clausola generale del danno ingiusto (C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., p. 132; M. DOSSETTI, Atti emulativi, cit., p. 3; C. RESTIVO, Gli atti emulativi, cit., p. 528 ss.; A. GAMBARO, Emulazione, cit., p. 441 s.).
Né – si conclude – questi ostacoli potrebbero essere superati tramite il richiamo alla funzione sociale della proprietà, a quest’ultima potendo essere realisticamente attribuito, alla luce della profonda evoluzione che ha attraversato l’ordine costituzionale dei rapporti socio-economici, soltanto il modesto ruolo di fondamento dei limiti posti dalla legge alla proprietà privata nell’interesse generale (C. RESTIVO, Gli atti emulativi, cit., p. 529), ovverosia «assicurare […], a ogni proprietario, che il suo diritto possa sì essere limitato dal legislatore, però esclusivamente per scopi collegati a detta funzione» (T. DALLA MASSARA, Art. 832 – Il diritto di proprietà, in Codice della proprietà e dei diritti immobiliari, a cura di F. Preite e M. Di Fabio, Torino, 2015, p. 356).
Come abbiamo visto, una valutazione comparativa dell’utilità del dominus e degli interessi delle controparti era stata svolta pure dalla sentenza della Corte d’appello riformata dalla pronuncia di Cassazione n. 1209 del 2016, la quale aveva fatto tuttavia ricorso non alla disciplina dell’art. 833 c.c. bensì a quel più generale divieto dell’abuso del diritto che, sebbene manchi di un esplicito riscontro normativo, la nostra magistratura ha ormai da tempo ricostruito quale principio generale dell’ordinamento giuridico muovendo dalle numerose manifestazioni del medesimo rintracciabili all’interno del sistema positivo, rappresentate innanzitutto proprio dal divieto di atti emulativi di cui all’art. 833 c.c. nonché dal dovere di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e nell’esecuzione del contratto contemplato dagli artt. 1175 e 1375 c.c. (ma v. pure, senza pretese di completezza, gli artt. 330 e 333 c.c. in tema di abuso della responsabilità genitoriale, l’art. 840, 2° co., c.c. con riguardo ai limiti della proprietà fondiaria, l’art. 1344 c.c. sulla frode alla legge quale causa di nullità del contratto, l’art. 1438 c.c. sulla minaccia di far valere un diritto per conseguire vantaggi ingiusti, l’art. 96 c.p.c. in ambito processuale, l’art. 9 della l. 18 giugno 1998, n. 192 concernente l’abuso di dipendenza economica, e così via). E invero, la giurisprudenza in tema di abuso del diritto annovera con una certa frequenza l’elemento della «sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte» tra gli elementi costitutivi della fattispecie in discorso, accanto alla «titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto», «la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate» e «la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico» (sono parole tratte dalla celebre pronuncia sul “caso Renault” di Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, pubblicata e commentata, tra le altre, in Corr. Giur., 2009, p. 1577, con nota di F. MACARIO, Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese: spunti da una recente sentenza della Cassazione; in Contr., 2010, p. 11, con nota di G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto; in Foro it., 2010, I, c. 85, con nota di A. PALMIERI – R. PARDOLESI, Della serie “a volte ritornano”: l’abuso del diritto alla riscossa; in Giur. comm., 2011, II, p. 295, con nota di E. BARCELLONA, Buona fede e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale).
Una valutazione dell’esercizio del diritto di proprietà alla stregua del divieto dell’abuso del diritto non è, del resto, completamente sconosciuta alla giurisprudenza, che in una celebre pronuncia degli anni Sessanta del secolo scorso aveva riconosciuto che l’abuso del diritto può consistere anche in comportamenti omissivi, come la mancata difesa in giudizio della proprietà che risulti dannosa per altri oltre che per il dominus (Cass. 15 novembre 1960, n. 3040, in Foro it., 1961, I, c. 256, con nota di A. SCIALOJA, Il non uso è abuso del diritto soggettivo?, relativa ad una fattispecie in cui un Istituto per le case popolari aveva tollerato per diversi anni l’occupazione di appartamenti di sua proprietà, così esponendosi alle censure degli altri abitanti dello stabile). Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha però negato che la fattispecie concreta potesse essere giudicata alla stregua della figura generale dell’abuso del diritto, affermando che in tema di proprietà e di condominio rileverebbe solamente il divieto di atti emulativi di cui all’art. 833 c.c. con tutte le limitazioni applicative che abbiamo già avuto modo di esaminare; conclusione, questa, che parrebbe trovare conforto nelle parole di quanti ritengono che «a rigore […] si deve parlare di abuso di diritto in relazione agli atti di esercizio di un qualsiasi diritto soggettivo, mentre il divieto di atti emulativi ne rappresenta un caso speciale riferibile al solo esercizio del diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento» (A. GAMBARO, Emulazione, cit., p. 440, poi testualmente ripreso da E. GUERINONI, Il divieto di atti emulativi, cit., p. 499; corsivo nostro).
D’altro canto, è fuori discussione che il terreno d’elezione per l’utilizzo giurisprudenziale dell’abuso del diritto è costituito dall’ambito dei rapporti contrattuali (v., per una recente casistica, V. AMENDOLAGINE, Abuso del diritto e buona fede nei rapporti contrattuali, in Contr., 2016, p. 811 ss.), tanto che ricorrendo in cassazione la condomina della fattispecie al nostro esame aveva lamentato, tra le altre cose, «violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.» per avere la sentenza d’appello «applicato la categoria dell’abuso del diritto a una fattispecie diversa da quelle – in materia contrattuale – alle quali fa riferimento la giurisprudenza della S.C.». A una diversa soluzione si potrebbe, peraltro, giungere rimettendo in discussione l’assunto secondo cui le situazioni di condominio (e più in generale di comunione) ricadono nel raggio di applicazione dell’art. 833 c.c. Secondo un orientamento, il divieto degli atti emulativi contemplerebbe infatti solamente le situazioni in cui vengono in gioco esclusivamente interessi individuali del dominus, destinati a prevalere senz’altro su quelli dei terzi nel momento in cui raggiungono quel minimo di rilevanza che si ritenga sia necessaria ad integrare l’utilità per il proprietario. Nelle situazioni di contitolarità organizzata di beni vengono invece in rilievo anche uno scopo comune e la conseguente necessità di rapporti di collaborazione, sicché potrebbe apparire più appropriato fare riferimento, anziché all’art. 833 c.c., al generale dovere di comportamento secondo correttezza e buona fede (E. GUERINONI, Il divieto di atti emulativi, cit., p. 505, ove ulteriori riferimenti in tal senso) sulla base del quale, come abbiamo visto, la giurisprudenza ha ricostruito una concezione dell’abuso del diritto che si fonda (anche) sulla verifica di una sproporzione tra il vantaggio che l’atto apporta al titolare e il sacrificio che il medesimo arreca ai terzi. A sostegno di questa proposta interpretativa si potrebbero richiamare la dimensione di principio generale della buona fede (sul punto v., fra i tanti, E. DELL’AQUILA, La correttezza nel diritto privato, Milano, 1980, p. 5 ss.; AA.VV., Il principio di buona fede, Milano, 1987; G.M. UDA, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Torino, 2004, p. 76 ss.) e l’attitudine espansiva delle norme che la contemplano, vale a dire la tendenziale «capacità della normativa di correttezza di insinuarsi [,al di fuori del campo delle obbligazioni e dei contratti,] in alcuni dei restanti, grandi blocchi nei quali si articola la materia privatistica […] tutte le volte in cui, quale che sia il terreno sul quale essa deve scendere e misurarsi (persone e famiglia, successioni per causa di morte, diritti reali e possesso, impresa e lavoro subordinato), si faccia questione di interpretazione di un atto patrimoniale, del conseguente rapporto obbligatorio, della sua attuazione» (sono parole di L. BIGLIAZZI GERI, Buona fede nel diritto civile, in Digesto disc. priv. – Sez. civ., II, Torino, 1988, p. 174). Nel momento in cui si ritenga di dare ingresso alla clausola generale di buona fede sorge, peraltro, il dubbio che per trovare una soluzione appropriata alla fattispecie concreta sia davvero necessario elaborare la figura dell’abuso del diritto o se, invece, quest’ultima non costituisca una superfetazione con la quale non si fa altro che “etichettare” con una determinata espressione un risultato interpretativo in realtà già pianamente attingibile – e invero raggiunto – tramite la valutazione ex fide bona (in quest’ultimo senso v., tra gli altri, A. D’ANGELO, La buona fede, in Il contratto in generale, IV, in Trattato di diritto privato, di¬ret¬to da M. Bessone, Torino, 2004, p. 61 ss.; S. PATTI, Abuso del diritto, in Digesto disc. priv. – Sez. civ., I, Torino 1989, p. 4; G. CATTANEO, Buona fede obiettiva e abuso del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 613 ss.; R. SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in La parte generale del diritto civile. 2. Il diritto soggettivo, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2001, p. 309 ss.). Si tratta di una questione che non può essere evidentemente affrontata nell’economia di questa trattazione, anche perché in dottrina non mancano ben argomentate tesi che sostengono l’effettiva possibilità di distinguere tra la valutazione di abusività dell’esercizio del diritto da un lato e quella di rispondenza a buona fede del comportamento dall’altro. Taluno ha, per esempio, ravvisato il criterio distintivo tra le due figure nel fatto che il sindacato dell’atto di esercizio del diritto basato sullo strumento dell’abuso si fonderebbe essenzialmente (in una prospettiva teleologica o «causale») sull’accertamento di una deviazione dell’esercizio del diritto rispetto allo scopo per il quale il diritto stesso è stato attribuito, mirando così a verificare che, attraverso tale esercizio, il titolare non cerchi di appropriarsi di «utilità» diverse ed ulteriori rispetto a quelle che con l’attribuzione del diritto l’ordinamento intende assicurargli; mentre il controllo che viene posto in essere quando si valuta l’esercizio dei diritti contrattuali attraverso il canone della buona fede ex art. 1375 c.c. riguarderebbe (in una prospettiva di carattere «procedurale») le modalità di esercizio del diritto, in particolare al fine di verificare che queste non comportino un aggravamento della posizione della controparte senza alcun apprezzabile vantaggio per il titolare del diritto esercitato (G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., spec. p. 18 ss.).
Secondo altri, invece, la distinzione tra abuso del diritto e buona fede si coglierebbe nel fatto che, nel primo caso, il giudice dovrebbe accertare la corrispondenza dell’esercizio del diritto all’interesse sotteso all’attribuzione dello stesso sulla base di una valutazione della condotta del titolare «in sé e per sé, prescindendo da ogni considerazione attinente al modo in cui essa interagisce con le sfere giuridiche implicate» e «astraendo» il diritto soggettivo «dalla trama delle relazioni in cui concretamente vive», sì da assumerlo «come entità isolata, avulso dal contesto delle dinamiche intersoggettive il cui esercizio genera»; diversamente, il sindacato svolto dal giudice al fine di accertare una violazione della buona fede avrebbe «natura relazionale», ovverosia implicherebbe «un bilanciamento tra interessi contrapposti, reso necessario dal gioco del reciproco implicarsi e limitarsi che le sfere di interessi innescano nel momento in cui, svolgendosi nel tessuto delle relazioni intersoggettive, sono costrette a confrontarsi le une con le altre» (C. RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007, p. 147 ss.).
Un’ulteriore impostazione ancora, poi, ritiene che i due concetti siano strutturalmente distinti in virtù del fatto che la buona fede costituirebbe il precetto, ancorché indeterminato, mentre il divieto di abuso del diritto rappresenterebbe una delle sue funzioni, che peraltro ne travalicherebbe la sfera di applicazione. Muovendosi in questa prospettiva, si ritiene di poter affermare che lo sviamento dall’interesse che costituisce il nucleo della teoria dell’abuso del diritto «costituisce […] la sublimazione della funzione valutativa della buona fede, riconcettualizzata secondo lo schema del diritto soggettivo, ma al contempo consente il superamento dei confini di quest’ultima, candidandosi a criterio di emersione dell’abuso di applicazione generalizzata»; mentre la ragione che giustifica l’inquadramento della funzione valutativa della buona fede in una struttura dogmatica qual è il divieto di abuso viene individuata nel fatto che ciò consente di fornire all’interprete un criterio sufficientemente certo per concretizzare la clausola generale di buona fede, sollevandolo dall’onere costante della valutazione minuta e della motivazione dettagliata della propria decisione fondata sulla clausola generale, nonché di approntare uno strumento di controllo della discrezionalità e della decisione dell’organo giudicante (F. PIRAINO, Il divieto di abuso del diritto, in Eur. dir. priv., 2013, p. 111 ss., 125 ss.).
Ad ogni modo, e per concludere, che si voglia procedere tramite la reinterpretazione del meccanismo di funzionamento dell’art. 833 c.c., il ricorso alla categoria generale dell’abuso del diritto o l’applicazione del principio di buona fede, sembra potersi affermare che in una fattispecie come quella decisa da Cass. n. 1209 del 2016 l’instaurazione di un giudizio di comparazione tra gli interessi in gioco è passaggio necessario e indispensabile, a prescindere da quale sia la traiettoria concettuale prescelta per compierlo, per arrivare ad una soluzione che possa effettivamente essere considerata la più conveniente e adatta, più appropriata e congrua, a soddisfare le esigenze pratiche che sono alla base del concreto e storico fatto della vita, da cui il procedimento ermeneutico ha preso le mosse.